Conor si alza, al mattino, solo.
Si alza, si prepara la colazione, prepara la lavatrice, stende la lavatrice ed esce per andare a scuola.
Un solo rantolo, improvviso, a scuotere questa solitudine, questo silenzio.
È quello di una madre che se ne sta lentamente andando, consumata dalla malattia, da quelle pillole che stanno vicino alla colazione di Conor, in dispensa.
Conor, così, è solo.
Solo nonostante una madre che ci prova ad essere forte, ma soccombe al dolore.
Solo nonostante una nonna fredda e altera, che combatte alzando muri, con la praticità, il suo dolore che non ha nome.
Solo nonostante un padre che arriva dall'America, ma resta poco, troppo poco, e ritorna presto alla sua vita che non comprende, non ha spazio fisico per Conor.
E Conor, allora, è solo. Solo almeno fino a sette minuti dopo la mezzanotte.
Allo scoccare dell'orologio, all'alternarsi del numero sulla radio sveglia, un mostro, arriva. È Conor che lo chiama, anche se Conor non lo sa.
Il mostro è un albero, in realtà, un tasso che veglia sulle lapidi, su chi non c'è più, nel cimitero cittadino.
Il mostro, non spaventa Conor, ma lo aiuta.
No, non è un supereroe, non ha poteri magici, ma ha il potere delle storie dalla sua, dall'alto delle sue centinaia di anni: tre storie che racconterà, a Conor, una che Conor deve raccontare, il suo incubo, ricorrente, che lo rende ancora più solo, più nervoso, più arrabbiato.
Le storie che il mostro racconta, non sono le solite fiabe, non c'è divisione tra buoni o cattivi, non c'è una morale semplice da trarre, non c'è lieto fine.
Ci sono però, leggendo fra le righe, aprendo la mente, appigli, aiuti, a cui Conor deve appellarsi e che lo aiutano, infine, a raccontare la sua.
La storia, che Patrick Ness racconta a noi, non è semplice, perché è più reale di altre, nonostante i tanti inserti fantastici, nonostante quel mostro, quelle fiabe, che irrompono nel dramma della malattia.
Ma sono proprio queste, a rendere il film speciale, a renderlo un film che strappa lacrime a profusione senza per questo finire per essere strappalacrime. Non è facile, parlare, raccontare, la malattia riuscendo a rimanere in equilibro, camminando su un campo minato.
Ma Juan Antonio Bayona, ci riesce, mescolando generi e tecniche, illuminando quel freddo e grigio angolo d'Inghilterra con acquerelli pieni di poesia, che fanno in parte dimenticare una CGI non proprio all'altezza.
Poi ci sono loro, gli attori, da una Felicity Jones struggente a una Sigourney Weaver un po' sprecata fino ad arrivare alla voce cavernosa di Liam Neeson, ma è Lewis MacDougall a rubare la scena a tutti, urlando, distruggendo, osservando in silenzio.
Diventando protagonista di una malattia, di una storia, che sembra escluderlo, relegarlo in un angolo in attesa. Raccontando il suo punto di vista, tra dolorose confessioni e incubi amarissimi ma pieni di verità troppo difficili da confessare, se non nel cuore della notte, ad un mostro che mostro non è, ma che arriva da lontano, da chi ci è vicino, per aiutarci.