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REVIEWSLE RECENSIONI
30/07/2020
Braids
Shadow Offering
Freschi trentenni, i Braids con “Shadow Offering” realizzano l’album della maturità, tra chitarre in primo piano, un suono preciso e rifinito, e la giusta dose di emotività.

Nel 2011, poco più che ventenni, i Braids avevano pubblicato Native Speaker, un album di debutto molto promettente, nel quale il gruppo riusciva a coniugare con successo dream pop, elettronica, pop canonico e musica d’avanguardia. Tra le pieghe del disco, in molti avevano colto – complice anche l’intensa vocalità di Raphaelle Standell-Preston – sia riferimenti a grandi classici come Björk, Cocteau Twins e Siouxsie and the Banshees sia un tocco postmoderno e sperimentale à la Animal Collective.

Ovviamente le recensioni positive non erano mancate, così come i riconoscimenti, basti pensare alla candidatura al prestigioso Polaris Music Prize del 2011, che li vide dietro solo agli Arcade Fire in stato di grazia di The Suburbs. Da lì in poi, i Braids hanno intrapreso un percorso di crescita, espandendo il loro sound album dopo album e mischiando ogni volta le carte in tavola, come dimostrato prima da Flourish//Perish (2013), dagli evidenti connotati elettro pop, e poi da Deep in the Iris (2015), dal suono molto organico e definito dalla band stessa come il proprio disco più solare e immediato (e dove spiccava, tra le influenze, quella della regina del Laurel Canyon sound Joni Mitchell).

Dopo cinque anni, i Braids tornano con Shadow Offering, originariamente atteso per la fine di aprile e invece pubblicato solo ora causa CoViD-19. Prodotto dall’ex Death Cab for Cutie Chris Walla, che dà al disco un suono preciso e rifinito in ogni suo dettaglio, il disco vede i Braids espandere il loro sound ancora una volta, rinunciando alle atmosfere sognanti di Native Speaker e Deep in the Iris in favore di un attacco diretto, pieno e rotondo, dove le chitarre sono in primo piano e l’intimità è il più delle volte consapevolmente sacrificata in favore di una buona dose di emotività.

Fin dall’attacco di “Here 4 U”, che apre il disco, si capisce che i Braids ambiscono a giocare in un altro campionato (senza per forza di cose volersi snaturare, anzi), come dimostrano i cori presenti nel ritornello e il cantato sopra le righe di Strandell-Preston, che sembra voglia arrivare anche all’ascoltatore più distratto. Lo stesso dicasi degli intrecci tra le chitarre e l’elettronica di “Eclipse (Ashley)”, nella quale ad un certo punto si aggira lo spettro dei Mogwai, così come in “Snow Angel”, un tour de force di 9 minuti dove i Braids giocano con le dinamiche, passando in men che non si dica dal pianissimo al fortissimo, raccontando come pochi le contraddizioni di questi strani anni Venti.

Detto delle chitarre distorte di “Upheaval II” e di “Young Buck” e “Just Let Me”, nelle quali Raphaelle racconta senza filtri le sue traversie amorose, l’album si chiude con il dittico “Ocean” e “Note to Self”, due canzoni che un tempo si sarebbero definite “della maturità”. Nella prima, la voce di Strandell-Preston è sostenuta solo da pochi accordi di pianoforte e qualche synth, mentre nella seconda è fondamentale l’intervento della batteria, che permette alla canzone di aprirsi nella seconda metà per poi concludersi con un finale catartico. La chiusura perfetta per un album che è in realtà un’indagine su come la tristezza e il dolore alle volte possano essere il carburante perfetto per il cambiamento, rendendo ognuno di noi più saggio e più forte. Un tempo ragazzi prodigio, oggi i Braids sono uomini e donne alla soglia dei trent’anni che hanno usato la loro arte per esorcizzare e superare i cambiamenti e le ferite inflitte loro dalla vita. E come Shadow Offering dimostra, non c’è niente di meglio della musica per comunicare le emozioni, per quanto siano dolorose e complesse.


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