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SPEAKER'S CORNERA RUOTA LIBERA
05/11/2025
Live Report
Shame, 03/11/2025, Santeria Toscana, Milano
Una band che vuole ancora crescere, anche a costo di spiazzare. Questi gli Shame che abbiamo visto al Santeria, pieni di vitalità sporca e istintiva, in una tensione sana e divertita tra ambizione e precarietà, caos e controllo.

Dieci anni fa, quando da un pub di Brixton spuntarono fuori gli Shame, pochi avrebbero scommesso che sarebbero riusciti a resistere all’ondata post-punk che tra la fine degli anni Dieci e i primi anni Venti ha travolto la scena britannica. In mezzo a decine di band che si contendevano l’etichetta di fenomeno del momento, il gruppo di Charlie Steen si è imposto con una forza e una personalità fuori dal comune. Songs of Praise (2018) è stato il manifesto di un’urgenza adolescenziale e rabbiosa, Drunk Tank Pink (2021) il disco della consapevolezza e della nevrosi post-pandemica, Food for Worms (2023) un lavoro più umano ma anche interlocutorio, mentre con Cutthroat, uscito lo scorso settembre, gli Shame hanno imboccato una nuova direzione: più melodica, più rischiosa, ma anche più viva.

È proprio questo nuovo capitolo che la band londinese ha portato sul palco della Santeria Toscana 31 di Milano, per l’unica data italiana del suo Massive Monster Tour. Un ritorno molto atteso, dopo l’apparizione estiva come special guest dei Fontaines D.C. al Carroponte, e un’occasione rara per rivedere dal vivo una delle formazioni più influenti della scena britannica dell’ultimo decennio.

 

Prima di loro, a scaldare la platea milanese, è toccato ai The Cindys, quintetto di Bristol al debutto, con un primo album omonimo in uscita venerdì 7 novembre. Giovani, ancora un po’ acerbi, sono già capaci di mostrare qualche scintilla d’interesse. Il loro indie-rock è un incrocio sincero e un po’ scomposto tra i Pavement e gli Smiths, con linee di chitarra jangly e testi che oscillano tra disincanto e ironia. Suonano per poco più di mezz’ora, con un set breve ma variegato: chiudono con una bella cover di Alex Chilton – omaggio colto e ben piazzato – e un ultimo brano più articolato, che suggerisce possibili sviluppi futuri lontani dal formato standard della canzone pop chitarristica.

La sensazione è quella di una band ancora in costruzione, ma con una curiosità autentica e una certa autoironia che conquista il pubblico, che regala loro applausi sinceri. In un contesto spesso saturo di opener anonimi, i The Cindys lasciano una buona impressione.

 

Alle 21:35 le luci si abbassano e gli Shame fanno il loro ingresso sul palco, accolti da un boato che fa vibrare le pareti della Santeria. Charlie Steen, frontman e vero corpo scenico della band, si presenta come sempre in grande stile: shorts dorati, petto nudo, stivaletti Blundstone, giubbotto da pescatore nero (che abbandona dopo pochi pezzi), occhiali da sole e un improbabile collarino ecclesiastico. L’immagine perfetta di un predicatore del caos, carismatico e imprevedibile. Accanto a lui, il bassista Josh Finerty è una forza centrifuga: corre, salta, si agita incessantemente, incarnando la parte più fisica e animalesca del gruppo. I due chitarristi, Sean Coyle-Smith ed Eddie Green, e il batterista Charlie Forbes, mantengono un profilo più statico, creando l’ossatura di un suono che, dal vivo, risulta sempre più preciso, potente e sfaccettato.

Fin dalle prime battute è chiaro come che la scaletta punti tutto su Cutthroat: i nuovi brani occupano gran parte del set, e non è un caso. Il disco, pur con le sue asperità e qualche scelta spiazzante, vive di una tensione che sul palco trova piena realizzazione. Steen alterna momenti di pura furia a gesti quasi teatrali; spesso scende verso il pubblico, cerca lo sguardo delle prime file e improvvisa piccole omelie laiche tra un brano e l’altro. L’atmosfera è calda ma non claustrofobica: il Santeria, rispetto ai Magazzini Generali, dove il concerto era inizialmente previsto, si rivela una scelta azzeccata. Si vede bene da ogni punto e l’acustica valorizza sia le nuove stratificazioni sonore sia l’impatto ritmico, senza sacrificare la voce di Steen.

Le nuove canzoni convincono, “Lampião” su tutte, sapientemente affiancate a classici consolidati come “Adderall” e “Snow Day”. Queste ultime, poste quasi in chiusura, sono senza dubbio tra gli highlights della serata: brani che sintetizzano la doppia anima del gruppo, tra groove nervosi e aperture melodiche inattese. Se nei dischi precedenti gli Shame apparivano spesso intrappolati in una tensione claustrofobica, Cutthroat li mostra più liberi, capaci di spaziare tra influenze pop, psichedeliche e quasi soul, senza perdere identità. Dal vivo questo equilibrio funziona: la band suona compatta, sicura, ma non addomesticata. C’è ancora quella sensazione di precarietà controllata, di rischio, che ha sempre reso i loro concerti speciali. Steen canta, urla, declama; Finerty trasforma il basso in un’arma ritmica; le chitarre si rincorrono con geometrie rumorose ma precise. La chiusura con “Cutthroat”, title track e manifesto del nuovo corso, suggella un concerto che scorre denso e vibrante per quasi novanta minuti.

 

Nota di merito per il pubblico molto giovane, decisamente più che in passato. Le prime file sono infatti occupate da ventenni che conoscono a memoria ogni singola parola delle canzoni, e l’assenza dei “soliti” cinquantenni (che fino a qualche tempo fa affollavano ogni evento post-punk, riconoscibili grazie alla t-shirt dei Joy Division d’ordinanza) contribuisce a creare un clima più genuino, meno nostalgico, come può testimoniare chi ha assistito al concerto dei Black Country, New Road di qualche giorno fa ai Magazzini Generali.

Gli Shame, del resto, non sono più la band rabbiosa del 2018, ma nemmeno un gruppo in cerca di un comodo rifugio nel passato. Hanno scelto di muoversi in avanti, rischiando. Cutthroat non è un album facile, ma è l’opera di una band che vuole ancora crescere, anche a costo di spiazzare. Là dove molti loro coetanei (dai Fontaines D.C. ai Murder Capital) hanno già imboccato la via della raffinatezza, gli Shame mantengono una vitalità più sporca e istintiva, una curiosità che li tiene in moto. È il loro modo di maturare: passo dopo passo, disco dopo disco, come facevano un tempo le band che imparavano direttamente dalla strada, dai live, dal contatto con il pubblico.

Quando le luci si riaccendono, restano negli occhi le immagini di Steen sudato che sorride al pubblico, di Finerty ancora saltellante, delle chitarre che sfumano in un feedback controllato e liberatorio. È vero, gli Shame non hanno ancora raccolto tutto ciò che meritano, ma forse proprio questa tensione continua – tra ambizione e precarietà, tra caos e controllo – è il segreto della loro forza. A Milano, per una sera, quella forza si è sentita tutta.