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REVIEWSLE RECENSIONI
30/03/2018
Siberia
Si Vuole Scappare
Sintetizzando epopea generazionale e omaggio alla tradizione, il secondo disco dei Siberia evita le scorciatoie ammiccanti e si inserisce a pieno titolo in un discorso di ricerca autentica che proprio per questo ha la pretesa di aspirare all’universalità

Se c’è una dialettica interessante nel nuovo album dei Siberia, potrebbe essere quella, abusata ma sempre affascinante, tra passato e presente; dove la contemporaneità è vista come minaccia, crisi, decadenza e il passato pare ammantato di una tranquillità rassicurante.

Non si collocano del tutto all’opposizione di quel “Nuovo Pop italiano” che dà il titolo al singolo e al primo brano del disco, ma idealmente un po’ hanno in mente di farlo, se oppongono alle “Playlist di verità” un sound che tutto pare tranne che aggiornato ai tempi che corrono.

Che poi lo si capisce già dal nome: dici Siberia e pensi ai Diaframma, a Fiumani, a Firenze, alla New Wave. Ai primi anni ’80, insomma. Poi leggi un’intervista di poche settimane fa e scopri che la band manco conosceva quel disco, mentre si formava e decideva il monicker. Ti diranno che non è credibile ma in fondo cosa c’è di strano? Abbiamo avuto la Russia, Pasternak e “Il dottor Zivago” molto prima che in Italia si iniziassero ad idolatrare i Joy Division. Ed esiste la nozione di “paesaggio dell’anima”, ruolo che la Siberia è riuscita a giocare con molta più facilità di altri luoghi.

Sia come sia, il secondo disco del quartetto livornese, arrivato a poco meno di due anni di distanza da “Nel sogno la mia patria”, che avevo solo registrato di sfuggita senza mai dedicarmici davvero, sta riuscendo nell’intento di farmi dimenticare che nel frattempo è uscita altra roba.

Ascoltiamo tante cose, in questi nostri anni confusi, ci esaltiamo o fingiamo di esaltarci per ogni titolo che prometta una certa distinzione dalla massa anonima da cui siamo circondanti. Oppure diamo voti altissimi a lavori di cui ci dimenticheremo in fretta, solo perché condizionati dal nome sulla copertina.

Ecco, il secondo album dei Siberia mi ha riportato sulla terra chiarendomi per l’ennesima volta la differenza tra un disco bello e un disco che ti piace veramente. E questo, non me ne vogliano i critici preparati, quelli che fanno davvero il loro mestiere, è un fenomeno che ha sempre molto a che vedere con la sensibilità e il vissuto personale. Queste nove canzoni mi sono entrate sotto pelle con esagerata lentezza ma hanno finito per determinare i miei ascolti e permeare le mie giornate come se fossero cose molto più importanti di un semplice pugno di canzoni.

E questo, lo ripeto, potrebbe avere a che fare col fatto che “Si vuole scappare” sia un disco fenomenale ma potrebbe anche darsi di no. Di sicuro c’è che è un disco derivativo: da qualunque parte lo si giri, è difficile uscire dall’impressione che sia “sempre quella roba lì”. Lo ascolti e le influenze che ci senti dentro sono sempre quelle, declinate attraverso un viaggio decennale che parte dai Cure e dai Joy Division e arriva fino ai più recenti restyling di Editors e Interpol, passando pure per un certo sarcasmo decadente a la Baustelle.

È inevitabile che scatti il déjà vu, che di fronte a certe linee melodiche, di fronte a certi fraseggi di chitarra, a certe note di Synth, si sorrida compiaciuti e sornioni e pure che si citi questo o quel rimando con fare colto e consapevole.

Ma c’è di più, ovviamente. Perché “Si vuole scappare” non è solo l’omaggio di una band ai propri ascolti di una vita ma è soprattutto un’opera contemporanea che utilizza linguaggi e stilemi ben noti e codificati per fare il punto della situazione, per lanciare un messaggio relativo al nostro mondo, al dove siamo arrivati.

La prima cosa che sorprende, dunque, è che si tratti soprattutto di un disco Pop. In questo senso, il primo brano risulta perfettamente centrato: il nuovo Pop italiano è anche questo qui; che magari esisterà anche al di fuori delle Playlist di Spotify, che parlerà una lingua apparentemente non convenzionale ma che, nonostante tutto, dimostra di possedere quell’immediatezza e quella spavalderia che ci permette di definirlo tale.

Perché si tratta di Pop, quello che fanno i Siberia; non importa se è scuro, non importa se è ammantato di Wave. Ed è un Pop che non rinuncia a mischiarsi con la nostra tradizione cantautorale. È presente tra le righe, non verrà avvertito subito, ma dopo un po’ emerge: dagli echi di De André in “La fine dell’estate” ai rimandi a Battiato di “Epica del dolore” o del già citato singolo; tutti elementi utili a farci capire di aver di fronte quattro ragazzi che hanno ascoltato tanto e che ripropongono quel che hanno capito senza nessun timore reverenziale.

Poi ci sono gli arrangiamenti: un disco del genere è bello non solo per il livello di scrittura ma anche per la confezione. I suoni sono magnifici ma il valore dei singoli episodi sta soprattutto nei dettagli: dal modo in cui chitarra e tastiera dialogano insieme, a formare un tappeto ritmico pieno e avvolgente, da come la batteria spinge o raddoppia il tempo su certe seconde strofe, dai cambi di dinamica tra strofa e ritornello nei vari pezzi e a tante piccole finezze che si notano nel prosieguo degli ascolti e che ogni volta lasciano il segno.

E bisognerebbe pure fare un certo discorso sul concept. I testi li scrive Eugenio Sournia, che canta con una padronanza di mezzi invidiabile, per la sua giovane età: sarà stato anche favorito dalla natura, visto che è in possesso di un timbro magnifico ma il controllo e la maturità che sembra possedere nell’usarlo, vanno certamente tutto a suo merito.

Un titolo come “Si vuole scappare” non ha certo bisogno di chiarimenti ma è interessante notare come non si tratti del solito predicozzo vittimista e auto indulgente sulla fuga dal reale. Tutto il disco è piuttosto un tentativo di rappresentare una generazione, quella degli attuali under 30, che appare come priva di punti di riferimento, disillusa e stanca in partenza rispetto al futuro. Non ci sono analisi e non ci sono ipotesi di soluzione, solo una condizione esistenziale con cui sembra necessario fare i conti.

Eugenio sa usare bene l’italiano e confeziona liriche che evitano le infiorettature e l’abbondanza metaforica da cui avrebbe anche potuto farsi tentare, per descrivere con crudo realismo paesaggi umani che riguardano i suoi coetanei e da cui lui stesso non si sente per nulla immune.

Sintetizzando epopea generazionale e omaggio alla tradizione, il secondo disco dei Siberia evita le scorciatoie ammiccanti e si inserisce a pieno titolo in un discorso di ricerca autentica che proprio per questo ha la pretesa di aspirare all’universalità. Manifesto eloquente di questi nostri anni musicali, da ascoltare anche se non siete proprio dei fanatici di certe sonorità.