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REVIEWSLE RECENSIONI
07/02/2019
Tre Allegri Ragazzi Morti
Sindacato dei sogni
“Sindacato dei sogni” è l’ennesima dimostrazione che quando hanno gli strumenti in mano e fanno Rock, i Tre Allegri Ragazzi Morti non li batte nessuno.

Un giorno bisognerà chiedere ai Tre Allegri Ragazzi Morti qual è il loro segreto. Perché, a pensarci bene, in venticinque anni di carriera, Davide Toffolo, Luca Masseroni ed Enrico Molteni non hanno praticamente mai sbagliato un disco. È vero, forse Il sogno del gorilla bianco dà la sensazione di essere un po’ incompiuto, mentre l’ultimo Inumani a tratti è discontinuo, ma, detto sinceramente, ben pochi gruppi della scena musicale italiana possono vantare un corpus così omogeneo, riconoscibile e solido come quello dei Tre Allegri Ragazzi Morti. E se a questo uniamo il fatto che la band di Pordenone ha fondato l’etichetta indipendente La Tempesta, che ha permesso a Zen Circus, Il Teatro degli Orrori e Le Luci della Centrale Elettrica – solo per citare alcuni – di trovare una casa e imporsi nel panorama alternative italiano, diventando ben più di un modello per tutte le altre etichette nate negli anni a venire, be’, siamo di fronte a un caso che non andrebbe solo studiato, ma anche tributato dei giusti onori.

Concluso il “periodo Baldini” (iniziato due lustri fa con Primitivi del futuro, proseguito con Nel giardino dei fantasmi e concluso con Inumani), che ha portato i Tre Allegri ad ampliare il proprio spettro sonoro incorporando influenze Reggae ed etniche, con il nuovo album Sindacato dei sogni si ritorna solo all’apparenza al Rock più tradizionale. Tra le pieghe del disco, infatti, si nascondono diverse novità: l’influenza del movimento musicale Paisley Underground e di band come i Dream Syndicate, con il loro miscuglio di Classic Rock e furore Punk, l’amore per una certa psichedelia anni Sessanta e dei sorprendenti slanci Prog.

L’influenza dei Dream Syndicate è palese fin dal titolo dell’album, ma non mancano anche le citazioni Beat (“Calamita”, con un riff che per 3/4 riprende quello di “Handle with Care” dei Traveling Wilburys e dove Davide Toffolo si confessa e si guarda indietro come poche altre volte ha fatto),  la New Wave di “C’era un ragazzo che come me non assomigliava a nessuno” (con un notevole assolo di sassofono di Francesco Bearzatti), il Rock à la Tom Petty di “AAA Cercasi” (con un Adriano Viterbini alla chitarra slide in modalità Mike Campbell) e quello à la Byrds di “Bengala”, dove gli archi di Davide Rossi (Goldfrapp, Coldplay) la fanno da padrone in una canzone che ha già tutti i canoni del classico.

Meno prevedibili – ma non per questo meno riuscite – le divagazioni psichedeliche: “Caramella”, il primo singolo, sostenuto da un’insistente chitarra Fuzz e arricchito dal Fender Rhodes di Nicola Manzan (Bologna Violenta), paga il tributo agli Stone Roses più acidi, mentre “Accovacciata gigante”, una canzone in due parti, inizia seguendo una schema più tradizionale per poi aprirsi nella seconda metà a suggestioni che ricordano in parte i Pink Floyd di Syd Barrett e i Dukes of the Stratosphear. Ma la sorpresa più grande, i Tre Allegri Ragazzi Morti la lasciano per il finale: “Una ceramica italiana persa in California” è un monumentale brano di tredici minuti nel quale digressioni Progressive, inserti Kraut Rock e duelli chitarristici a metà strada tra i Television e i Grateful Dead la fanno da padroni, creando una delle canzoni più belle del disco e una tra le più avventurose nel catalogo della band.

Chiude il disco la bonus track “Con i bengala in cielo”, dove la stessa traccia vocale di “Bengala” si fa strada su un arrangiamento fatto di archi, armonica e voce. E anche se il testo è il medesimo, ascoltarlo nuovamente alla fine del disco assume un significato completamente diverso, come fosse un commiato per l’ascoltatore alla fine del viaggio, tirando metaforicamente le somme di tutto il lavoro.

Prodotto da Matt Bordin e registrato in quattro sessioni estive nel suo studio, l’Outside Inside Studio di Volpago del Montello in provincia di Treviso (una casa di pietra affacciata su un bosco che ha di sicuro influenzato l’atmosfera generale del disco), Sindacato dei sogni è l’ennesima dimostrazione del fatto che, quando hanno gli strumenti in mano e fanno Rock, i Tre Allegri non li batte nessuno: batterie essenziali, basso rotondo, chitarre sognanti – forse Rickenbacker a 12 corde o forse no, ma non importa – testi curati, tante idee ben realizzate. Ci si è sempre chiesti se fosse possibile fare Rock in Italia, in italiano, in maniera credibile e originale. La risposta è sì e ce l’abbiamo sotto gli occhi da venticinque anni.