Con il precedente Impera (2022), i Ghost hanno concluso la fase più cruciale della loro carriera: quella che li ha trasformati da band di culto a fenomeno di massa capace di riempire gli stadi, riempendo la distanza che separa i Mercyful Fate dai Metallica. Non è un’impresa da poco, ma nemmeno una novità assoluta: a cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta, artisti come Alice Cooper e i Kiss avevano dimostrato che una certa dose di teatralità può benissimo convivere con l’ironia e con un senso raffinato per la melodia pop. Tobias Forge questo lo ha capito molto presto e lo ha tradotto in una delle operazioni più lucide e per certi versi più sofisticate del rock contemporaneo.
Skeletá, il sesto album in studio della band svedese, arriva dunque a chiusura di un ciclo e all’inizio di un altro. È l’esordio ufficiale del nuovo frontman, Papa V Perpetua (ovviamente sempre Forge celato da una nuova maschera), un personaggio più oscuro, solenne e ieratico dei suoi predecessori. Ma soprattutto, è il primo album dichiaratamente introspettivo della band, un lavoro che rinuncia alla grande narrazione (le piaghe medievali di Prequelle, il commento sociopolitico di Impera) per concentrarsi su una dimensione più personale, quasi diaristica, pur utilizzando l’immaginario che Forge ha eretto con cura maniacale negli ultimi quindici anni.
Il risultato è sorprendente, anche perché Skeletá riesce nell’impresa di apparire più personale senza essere per questo meno accessibile. I Ghost infatti non rinunciano ai ritornelli da stadio, alle chitarre alla Def Leppard, né al tentativo (come sempre riuscitissimo) di un’acrobatica sintesi tra gli ABBA e l’heavy metal. Ma lo fanno con una maggiore consapevolezza formale, costruendo dieci canzoni-canzoni (questa volta non c’è nessuna traccia strumentale, ed è la prima volta nella discografia degli svedesi) che, pur diverse tra loro per tono e arrangiamento, sembrano orbitare attorno allo stesso nucleo emotivo: il senso di perdita, la malinconia, l’autoanalisi – insomma, il desiderio di redenzione (o perlomeno di comprensione e vicinanza nei confronti del prossimo).
Lo dimostra bene “Peacefield”, il brano che inaugura Skeletá e che funge da manifesto per l’intero disco. Dopo un coro di bambini posto in apertura, il brano si trasforma subito in un mid-tempo da radio rock FM, tra Survivor e Boston, prima di deviare verso sentieri più oscuri. È una canzone che, per come è strutturata, dice molto su Skeletá, non solo per l’attenzione alle dinamiche e alla produzione (curatissima come sempre e mai sterile), ma anche per come mette in scena il concetto di “lotta interiore”. E la voce di Forge, in primo piano e cristallina come mai prima d’ora, è forse l’aspetto più sorprendente dell’album: fin dalle prime battute, chiarisce che quella offerta in Skeletá è la sua miglior prova in studio nella discografia dei Ghost.
I due singoli che hanno anticipato l’album, “Satanized” e “Lachryma”, rappresentano bene invece i poli emotivi tra cui si muove Skeletá. La prima è l’episodio più classicamente Ghost del disco: riff marcato, ritornello esplosivo e un testo che gioca con un immaginario alla Esorcista in modo ironico e grottesco. A pensarci bene, è un brano che sembra uscito da Meliora, ma arricchito dall’esperienza produttiva e dal gusto melodico accumulato da Forge nel corso degli anni, rendendo possibile una fusione tra doom, AOR e ABBA.
“Lachryma”, invece, è una delle vette compositive del disco: una ballata tormentata e stratificata, costruita su armonie vocali malinconiche e un riff filtrato da echi sabbathiani. È forse la canzone che meglio incarna l’introversione evocata da Forge: un lamento che si trasforma in catarsi, senza mai diventare patetico. La produzione di Gene Walker (ovviamente sempre Forge, noto per supervisionare con cura maniacale ogni dettaglio della sua creatura) enfatizza la dimensione atmosferica, costruendo uno spazio sonoro più ampio e arioso rispetto al passato.
Come già in Impera, anche in Skeletá la scrittura di Forge è piena di rimandi: “Cenotaph” sembra una outtake dimenticata dei Blue Öyster Cult, filtrata però dalla leggerezza pop di uno Steve Perry dei tempi d’oro. “Missilia Amori”, forse il brano più esplicitamente sessuale del disco, è invece un omaggio dissimulato ai Kiss di Lick It Up e ai Def Leppard di “Pour Some Sugar on Me”, con una batteria meccanica e dei riff che fanno da contrappunto a un testo volutamente kitsch (e - con tutto l’impegno possibile - francamente indifendibile).
Ma ci sono momenti, come nella power ballad “Guiding Lights” (probabilmente il pezzo più melodrammatico del catalogo degli svedesi) o nella conclusiva “Excelsis”, in cui Forge abbandona il sarcasmo e sembra credere davvero nelle immagini che evoca. C’è qualcosa di sinceramente commovente nell’idea di un musicista cresciuto in un rigidissimo ambiente cattolico che reinterpreta l’estetica liturgica come spazio liberato, in cui l’ambiguità diventa rifugio. È un gesto che può apparire calcolato (e probabilmente in parte lo è), ma che funziona perché sostenuto da un’urgenza autentica. Ecco perché quando si parla dei Ghost è sbagliato e tirare in ballo la blasfemia, ma si deve invece parlare di vera e propria satira.
Detto che “Marks of the Evil One” è forse uno dei pezzi migliori del disco tanto da sembrare già un classico nel catalogo dei Ghost, il brano che più di ogni altro sintetizza l’identità mutevole di Skeletá è però “Umbra”, un pastiche musicale che include tutto il vocabolario della band svedese (l’hard rock, il glam, il prog, persino Lady Gaga) senza sembrare forzato. È il tipo di canzone che pochi gruppi oggi potrebbero permettersi e ancora meno potrebbero far funzionare: è esplicita e teatrale, ma non perde mai la bussola melodica. Come sempre, c’è qualcosa di volutamente esagerato nella teatralità dei Ghost, ma “Umbra” dimostra che Forge sa esattamente quando calcare la mano e quando ritirarla. È questa la chiave del disco: una consapevolezza compositiva che rende credibile anche ciò che, in altri contesti, sembrerebbe solo parodia.
In definitiva, Skeletá è un album che riesce a essere più di quanto ci si aspetterebbe da un disco dei Ghost. Non è soltanto un esercizio di stile, né un’opera concettuale nel senso tradizionale. È, piuttosto, un archivio emotivo in cui Tobias Forge inserisce ogni frammento della propria formazione musicale (dai Def Leppard ai Depeche Mode, da Ronnie James Dio ai Pet Shop Boys) con uno sguardo che non è mai nostalgico, ma stratificato e ironico. La produzione è volutamente polverosa, con un’estetica che richiama i dischi AOR della fine degli anni Ottanta, ma non c’è nulla di passatista: Skeletá è un album che vive nel presente, che dialoga con il suo tempo anche quando sembra voltargli volutamente le spalle.
Insomma, la vera forza del disco sta nella sua capacità di tenere insieme gli opposti: il sacro e il profano, l’introspezione e la carnevalata, la sincerità e la maschera (con la seconda che rende possibile la prima). In un momento storico in cui il rock fa fatica a trovare nuove forme espressive senza cadere nell’autocompiacimento, i Ghost ricordano come si possa essere profondi anche (se non soprattutto) quando si indossa una maschera argentata e un mantello viola con le ali da pipistrello cantando (letteralmente) dei propri demoni.