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REVIEWSLE RECENSIONI
18/08/2020
The Lawrence Arms
Skeleton Coast
Cosa accomuna Chicago, il Texas, la Namibia, il punk, i teschi di coyote e i viaggi in macchina? Venite a scoprirlo. Questo è Skeleton Coast, e questi sono i Lawrence Arms.

Dopo vent’anni a raccontare di Chicago, la loro città, i Lawrence Arms registrano il loro nuovo album, Skeleton Coast, presso i Sonic Ranch Studios, a 30 miglia a est di El Paso, in Texas. Per quanto il produttore (Matt Allison) sia lo stesso di sempre, il mood generale risente di questo cambiamento d’atmosfera, permettendo alla band di ricontestualizzare il loro suono e di creare una sintesi tra la loro identità melodica e punk di sempre e quello che potrebbe essere un perfetto album da viaggio. Un disco di quelli da ascoltare tra molti silenzi e poche parole, tamburellando le dita sulla carrozzeria di una macchina con i finestrini abbassati, mentre si guida sulle strade polverose, soleggiate e solitarie del Texas con il vento tra i capelli, gli occhiali da sole perennemente sul naso e la testa appoggiata al sedile.

Skeleton Coast è una piacevole colonna sonora di 34 minuti, un LP maturo di una band che ha oramai imparato a gestire con abilità la propria cifra stilistica, un prodotto in linea con i precedenti ma che non ha perso fascino e savoir faire, nonché un regalo ai fan, dopo i sei anni di attesa dal precedente Metropole (2014). Gli ingredienti ci sono tutti: la doppia voce di Brendan Kelly e Chris McCaughan, la giusta dose di anthem da cantare, un pizzico di adrenalina con i riff e i brani più punk e qualche generosa spolverata di tenerezza, che fa inevitabilmente capolino tra le melodie che percorrono le quattordici tracce del disco.

Skeleton Coast è un disco di piccoli racconti, scritti e suonati da tre ragazzi che dopo 21 anni di carriera si divertono ancora a fare musica insieme, scambiandosi demo mentre stanno creando, lasciandosi commenti a vicenda al telefono, sperimentando in sala prove come degli adolescenti nel loro garage, complimentandosi per gli assoli ed esaltandosi per le idee gli uni degli altri.

Ogni traccia è una breve, malinconica e lieve rincorsa di lampi di luce nell’oscurità. Trovare un luogo di pace in un mondo ostile in “Belly of the Whale” o fare i conti con il mondo in cui si vive, avendo speranza nel prossimo e nel futuro, nonostante quest’ultimo, per sua natura, sia sempre un passo avanti, come in “Dead Man’s Coat”.

Piccole storie, canzoni d’amore segrete, versi astratti e un mito alla fine dei tempi, come quello che Brendan e Chris raccontano a proposito di “Coyote Crown”, che parla di come a volte si tratta anche solo di starsene lì seduti, alla fine di tutte le cose, con un teschio di coyote in testa e un fuoco che ti scalda il volto con il suo tremolio, a guardare come tutto si sgretola e muta, chiedendosi chi si è, quanto si è cambiati e quanto questa vita sia stata una nostra scelta o quanto sia il fluire della realtà che si è vissuta a decidere per noi.

Nel mondo reale, la Skeleton Coast è un tratto di costa della Namibia settentrionale. A causa della sua posizione lungo la fredda corrente del Benguela nell'Oceano Atlantico, una fitta nebbia copre quasi costantemente l'area, rendendo difficile per le navi notare o evitare le numerose dune di sabbia. È possibile sbarcare, ma impossibile imbarcarsi. Tempo fa era chiamata Skeleton Coast a causa delle molteplici ossa di balena che si potevano trovare sulla spiaggia, mentre oggi, quelli esposti, sono principalmente i tanti relitti che il litorale ha collezionato nel corso degli anni. I boscimani la chiamavano "la terra che Dio ha creato con rabbia", i portoghesi la ribattezzarono "le sabbie dell'Inferno".

In fondo, se la leggiamo metaforicamente, quella costa africana potrebbe descrivere anche la vita: un viaggio che non si può decidere quanto iniziare ma che prima o poi finirà, denso delle carcasse dei ricordi, guidato dalle correnti, nel tentativo di evitare intralci alla navigazione, con un futuro e un destino incerto, che non possiamo mai governare pienamente, ma per il quale a volte siamo pronti a chiamare in causa entità celesti o infernali.

Una trama potenzialmente oscura, nella quale i Lawrence Arms, ci ricordano di trovare sempre dei bagliori che ci illuminino e ci ispirino, riequilibrando pensieri che, nell’eterno oscillare tra passato e futuro, dovrebbero godersi semplicemente il presente, con leggera consapevolezza e ritrovata libertà.

Una rivelazione epifanica alla fine di un viaggio? Di quelli in mare tra le onde, di quelli privati e inconsci o di quelli in macchina tra asfalto e sole? Non proprio, perché come nei migliori percorsi di autocoscienza, in realtà tutto ci era stato suggerito e sinteticamente rivelato sin da principio. In questo caso, sin dal primo verso della prima canzone: «There is no past, there is no future. Now I'm free to live, at last» (“Quiet Storm”).


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