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REVIEWSLE RECENSIONI
11/09/2017
The National
Sleep Well Beast
Un disco che si muove in punta di piedi, quasi sussurrato e nello stesso tempo malinconico e scuro più che mai nelle intenzioni delle melodie.

La prima cosa che si potrebbe sottolineare è che il titolo è bellissimo. Sleep Well Beast, oltre a suonare benissimo in lingua inglese, è anche una frase sufficientemente aperta ed enigmatica, da far sì che ciascuno ci possa vedere dentro quel che vuole. Alla fin fine, però, il tema è sempre quello: la fragilità delle relazioni, il bisogno insopprimibile di amare la persona al proprio fianco e nello stesso tempo l’irriducibile fatica di confrontarsi con la sua alterità. Un’alterità che è ciò che dà valore al rapporto, che lo caratterizza ma che è al contempo un elemento con cui bisogna per forza fare i conti, pena la dissoluzione del rapporto stesso. “Un giorno ti distruggerò, ma adesso dormi bene, bestia, dormi bene anche tu.”. Dice più o meno così Matt Berninger, alla fine della title track, che è il pezzo che chiude l’album e che è anche (informazione inutile per soli nerd) la prima title track che questo gruppo abbia mai scritto.

Distruggere l’altro: per troppo odio o per troppo amore. Perché non si sopporta più di averlo accanto, di sacrificare la propria vita per lui, oppure (all’inverso ma alla fine è la stessa cosa) perché il proprio progetto, le proprie aspirazioni, finiscono per soffocarlo. È quel che emerge in I’ll Still Destroy You, dove si parla, sembrerebbe, di quanto sia difficile crescere dei figli sapendo accettare che saranno sempre e comunque diversi da come i loro genitori li hanno immaginati.

Il settimo disco dei The National parte da qui. Parte da un gruppo di cinque individui che negli anni ha lavorato tantissimo, che ha superato mille difficoltà, ha lottato contro l’iniziale indifferenza del pubblico tenendo concerti ovunque e affinando sempre di più quelle doti di scrittura e di arrangiamento di cui è sempre stato ben fornito sin dagli esordi, ma che andavano comprese ed elaborate perché facessero davvero la differenza.

Un gruppo di cinque individui che ha fatto della musica il proprio mestiere ma che non ha mai vissuto per la musica. Si sono sposati, hanno fatto dei figli, hanno iniziato nuove collaborazioni e progetti, hanno cambiato casa. In poche parole, si sono confrontati con la vita, quella vera e autentica, al di là di ogni immagine patinata o preconfezionata che si possa essere tentati di avere quando si parla di musicisti rock.

Perché diventare una delle più importanti band degli ultimi quindici anni non è uno scherzo ma non può neppure essere qualcosa da celebrare come un traguardo fine a se stesso. E così è uscito un nuovo disco, ma è uscito quattro anni dopo il precedente e nel frattempo, oltre ad un lungo tour, al tributo ai Grateful Dead, alla rassegna di musica sperimentale a Berlino curata dai fratelli Dessner, al progetto El Vy messo insieme da Matt Berninger con Brent Knopf e a molta altra roba di cui adesso non ricordo, ci sono state tutte le vicende famigliari di cui si diceva. E ci sono state le vicende politiche, anche. Una dimensione della realtà che al gruppo dell’Ohio ha sempre interessato parecchio. Avevano supportato Obama ai tempi (un brano come Fake Empire, che ha dato loro il successo planetario, è figlio di quella campagna), hanno fatto lo stesso per Hilary Clinton e prima ancora per Bernie Sanders, quando le primarie dei Democratici erano ancora un fatto aperto.

L’elezione di Trump è arrivata a lavorazione quasi conclusa, quando però molti testi erano da scrivere e la scaletta definitiva non era ancora stata del tutto approntata. Naturale dunque che molto del “trauma” che l’America ha vissuto sia confluito in questo disco. The System Only Dreams In Total Darkness, il primo singolo uscito ai primi di maggio, sembra raccontare, pur attraverso un testo piuttosto criptico, la fine di un’illusione, la fine delle speranze, la fine della pace. Come dire: nei periodi bui ci rimane il sogno del cambiamento, ma questo cambiamento non pare essere cosa reale, a giudicare da come sta andando il presente. La voglia di dormire, di non svegliarsi, pare essere uno degli elementi chiave di questo lavoro. In realtà la narrativa di Matt Berninger ha sempre amato giocare col contrasto tra sonno e veglia, sono immagini che ritroviamo in diverse canzoni del passato. Questa volta però sembra che, a partire dal titolo, ci sia stata una precisa volontà di tratteggiare dei personaggi che preferiscono restare a letto, piuttosto che affrontare le difficoltà che la vita presenta loro. Si può scegliere di dormire per superare la salita al potere di un Presidente considerato come il male assoluto o per non dover confrontarsi con la fine di una relazione (il secondo singolo Guilty Party è un bell’esempio di quest’ultimo caso).

Sappiamo che Matt non scrive per forza di cose di se stesso, che il suo matrimonio è solido e che la moglie Carin (che tra parentesi, per la prima volta compare anche nel titolo di un brano, anche se lei non era proprio contenta della cosa) lo aiuta da parecchi anni nella stesura delle liriche. Eppure, come lui stesso ha dichiarato qualche mese fa, scrivere di fallimenti è un’attività che lo aiuta ad esorcizzare la paura che un giorno il fallimento possa toccare a lui. Del resto lo dice, ad un certo punto, che “sto solo cercando di rimanere in contatto con tutto ciò con cui sono ancora in contatto.”. E se tra queste cose c'è anche la concretezza della scrittura, diciamo senza timore di smentite che questi sono i più bei testi che abbia mai scritto da quando esiste il gruppo. L’immagine della coppia al termine di una festa, con lei che si perde nei saluti e lui che non ne può più di andare via; la mitica figura di zio Valentine Jester che si ubriaca sempre di Vodka Punch; il padre che misura l’altezza della figlia per capire quanto sia cresciuta dall’ultima volta che si sono visti; la coppia ormai finita che allo stesso tempo non sa perché sia finita; sono piccoli quadri ammantati di un realismo toccante, che mostra la drammaticità dell’esistenza nella quotidianità di tutti i giorni.

“Il personale è politico”, si diceva negli anni ’70. Oggi, per fortuna, è tutto diverso. L’uomo è uno, indivisibile, per cui nessuno stupore che il personale influenzi il politico e viceversa. Alla fine, tutto c'entra con la vita che ognuno di noi è costretto a condurre, volente o nolente. Ne consegue la rabbia di Turtleneck, un pezzo che risente degli ultimi avvenimenti e che “all’inizio ci vergognavamo di inserire nel disco, tanto era arrabbiata”. Ma non è l’unico. Alla fine, come già detto, tutto il lavoro parla delle stesse cose, declina il fallimento, la sconfitta e la paura in modi differenti e non è sempre possibile capire di quale ambito si stia parlando.

Non è un disco facile, tra l’altro. Abbiamo imparato ad amare i The National perché, lucidamente come nessun altro, hanno saputo scrivere canzoni che raccontassero l’epopea americana utilizzando tutti i linguaggi possibili e canalizzandoli all’interno di una forma debitrice alla tradizione ma al contempo lanciata verso il futuro. La prova di questo è che, bene o male, piacciono a tutti: a chi pensa che il rock sia finito con London Calling e a chi dà ancora senso all’etichetta Alternative Rock.

E hanno saputo compiere questa meraviglia, unire culture e sensibilità trasversali, riprendendo pedissequamente la stessa formula anno dopo anno: se prendete il primo, omonimo esordio ed arrivate fino a Trouble Will Find Me, non scoprirete molte differenze negli ingredienti. Semmai, hanno imparato a scrivere sempre meglio, hanno alzato la qualità in modo esponenziale e hanno curato sempre di più i dettagli. Ad ogni singolo disco cambiava qualcosa, il mood generale poteva anche essere connotato in maniera diversa (da questo punto di vista, High Violet poteva essere più claustrofobico e ripiegato su se stesso rispetto a Boxer, oppure Trouble Will Find Me viveva maggiormente di chitarre acustiche e aperture melodiche) ma la sostanza rimaneva quella. Hanno fatto sempre lo stesso disco? Si dovrebbe dire di no, visto che normalmente un’affermazione del genere non ha mai una connotazione positiva. Eppure, se cambiamo il senso della frase, non sarebbe poi una vergogna dare una risposta affermativa.

A questo giro, invece, qualcosa è cambiato. Innanzitutto la metodologia di lavoro: i nostri ormai vivono in luoghi diversi degli Stati Uniti (Aaron Dessner addirittura a Parigi) e le prove a Brooklyn, dove tutti hanno vissuto per diversi anni, sono un lontano ricordo. Il disco è stato dunque scritto e assemblato come il precedente, con i vari membri a scambiarsi idee a distanza ma poi, questa è la differenza, si sono ritrovati tutti insieme a Fall Creek, nel Wisconsin, in un posto nuovo di zecca chiamato Long Pond, che Aaron ha fatto costruire su suggerimento del suo grande amico Justin Vernon, che ne ha uno simile da quelle parti. Per diversi mesi sono stati lì, a rifinire i pezzi e a registrarli, il tutto in compagnia delle famiglie. Un’esperienza rilassante, un ritorno ai vecchi tempi della band ma, allo stesso tempo, in un ambiente molto più stimolante per la creatività e con un livello professionale ora decisamente più elevato.

Le orchestrazioni sono state fatte a Parigi, la maggior parte delle voci Matt le ha registrate a casa sua, a Los Angeles. A parte questo, Sleep Well Beast è stato creato quasi tutto lì, tanto che Long Pond campeggia in bella vista sulla copertina, con tanto di band che fa discretamente capolino dalla finestra.

In un’intervista recente Bryan Devendorf ha detto che questa volta il lavoro che è stato fatto in fase di arrangiamento, è stato soprattutto un lavoro di sottrazione. È verissimo: ascoltando tutte le dodici canzoni che compongono il disco, la sensazione è proprio che si siano voluti inserire meno elementi possibili. O meglio, la tessitura sonora è ricchissima: se lo ascoltate in cuffia, vi si aprirà un mondo di glitch, rumori ed effetti vari che, assieme al pianoforte, sono la vera trama attorno a cui ruotano queste canzoni. Le chitarre ci sono, ma non hanno più un ruolo portante in fase di arrangiamento. Semmai, vengono scomposte, destrutturate, caricate di distorsioni strane (il riff di cinque note che sta al centro di The System Only Dreams in Total Darkness è un bell’esempio di chitarra impiegata in maniera diversa dal solito) e qua e là ci sono addirittura degli assoli, cosa che il gruppo, almeno in studio, non aveva praticamente mai fatto.

Il feeling generale è dunque quello di un disco pieno di dettagli, cesellato alla perfezione fin nei minimi particolari ma, allo stesso tempo, “scabro ed essenziale” come una poesia di Montale (perdonate il paragone). Un disco che si muove in punta di piedi, quasi sussurrato e nello stesso tempo malinconico e scuro più che mai nelle intenzioni delle melodie. Ci sono alcune concessioni al vecchio stile della band perché Turtleneck assomiglia ad una sfuriata elettrica in stile Mr. November e Day I Die ha un bell’incedere tipico dei più grandi anthem della band (vedi Mistaken for Strangers o Secret Meeting. Per il resto, c'è poca velocità, poca rabbia e tanta tristezza, essendo il modello prevalente quello della ballata pianistica ammantata di elettronica rarefatta. Guilty Party è il punto più alto in questo senso e rappresenta la vetta del livello di scrittura raggiunto dal gruppo, ma anche Born to Beg, Darkside of the Gym, Carin at the Liquor Store, sono altri gioielli di bellezza indicibile. Sul versante più sperimentale, l’opener Nobody Else Will Be There e Walk It Back sono indicative per comprendere il tipo di lavoro di asciugatura che è stato fatto sulle canzoni. Quest’ultima in particolare, se ascoltata nelle diverse versioni live dello scorso anno, dove veniva arrangiata in maniera tradizionale, offre l’esempio più compiuto di un gruppo che, se anche utilizza stilemi compositivi piuttosto statici, sa lavorare sui singoli episodi in modo tale che ci sia sempre qualcosa di diverso ogni volta. Ascoltate anche il pezzo finale, la title track: è di fatto una lunga sequenza di rumori e suoni sintetizzati, nata come una sorta di improvvisazione Ambient, ed è solo la linea vocale di Matt a darle un aspetto compiuto. Ed è l’ideale chiusura del cerchio di un disco che ha saputo come sempre tenerci col fiato sospeso. Nessuno come loro, al momento, è in grado infatti di tenere alto il livello di attenzione per un’ora intera ed è capace di caricare le canzoni di pathos mediante piccole variazioni di struttura (il bridge che inseriscono quasi sempre è ancora una volta il momento in cui la singola canzone raggiunge il suo picco emozionale).

Certo, qui non c'è l’immediatezza di Boxer e neppure la vastità di spazi di Trouble Will Find Me. Questo è un disco che chiede pazienza, dedizione. Difficile, molto difficile comprenderlo al primo ascolto. Almeno la metà dei pezzi non piacerà subito ma non bisogna scoraggiarsi. Occorre ascoltarlo e riascoltarlo, farlo girare, assaporarlo piano piano. Alla fine, ne sono sicuro, otterrà l'effetto desiderato. Perché Sleep Well Beast è un disco maturo e completo, con un senso di grandezza come oggi se ne sentono pochi. Non ho detto per forza di cose che sia il migliore: quello lo dirà il tempo e poi in queste cose il gusto personale ha ancora un ruolo preponderante. Di sicuro però, non sono molti i gruppi che arrivano al settimo album avendo ancora la capacità di migliorarsi, di andare oltre.

Direi che a questo punto se la gioca con American Dream per il titolo di disco dell’anno. Può anche darsi che non esca un vincitore, però.