Temo di non potermi concedere d’abbracciare in tutto e per tutto, o prendere unicamente in considerazione, un punto di vista kantiano – posto che nell’umana coscienza possa ancora albergare qualcosa che abbia una somiglianza anche remota con un punto di vista kantiano – su alcunché, men che meno su quell’astrazione meramente teorica dai significati ambigui, ambivalenti e contraddittori, che va sotto il nome di “morale”. Per farla breve, qualsivoglia forma di “imperativo categorico”, così come qualsivoglia forma di “questione morale”, sia essa filosofica e speculativa sia essa “reale” e concreta (essa = la forma), mi ripugna al limite del disgusto fisico. Questa è anche una delle ragioni per cui da oltre quindici anni (giorno più giorno meno) mi rifiuto (“categoricamente”) di parlare di calcio con gli juventini, di musica coi fan di Liga-Jova-Pelù+Vasco e di politica con chicchessia; il che, non lo nego, potrebbe persino essere un modo per venire a patti con la meschina sensazione di non essere poi così diverso da coloro che mi diverto a dileggiare.
Temo, inoltre, di non possedere l’abilità di articolare idee in maniera rigorosamente lineare e accademicamente coerente, abilità, questa, che considero essenziale per godere appieno di quel genere di equilibrio interiore, principalmente emotivo ma – ne consegue – anche fisico, verso cui l’uomo tende durante lo svolgersi della vita terrena, benché sia fermamente convinto che il raggiungimento di quel tanto bramato equilibrio (o stabilità) si collochi tra la distopia e l’illusione ottica, e in ultimo potrebbe forse fare più danni di quanti non ne abbia già fatti la “morale”, kantiana o non kantiana che sia.
Temo, infine, di non essere sufficientemente superficiale da trattare le mie stesse parole con superficiale sufficienza e bollarle come bluff (nei miei confronti in primis, ovvio) o uno scherzo o una meta-presa-per-il-culo dei miei quattro raffazzonati lettori che da questo momento saranno soltanto due, dato che il 50% di questo Paese è kantiano senza nemmeno saperlo nel senso più deleterio del termine ma soprattutto pigro al punto da non riuscire a mantenere la capacità di concentrazione quando si trova a dover leggere proposizioni che dopo la quinta parola non presentano alcun segno d’interpunzione, figuriamoci poi quando si tratta di dover seguire le futili elucubrazioni di uno sconosciuto che sulle papille gustative dell’inconscio lasciano uno sfuggente gusto della suddetta presa-per-il-culo (meta- o anche non meta-) la quale sembra - e dico sembra – attingere alla filosofia e si srotola sulla pagina con inquietanti reminiscenze letterarie postmoderne tipiche di quei tizi un po’ nerd e un po’ bohémien e un po’ onanisti pregni dell’attitudine da guarda-mamma-senza-mani tanto di moda negli anni ’90 e negli anni Dieci del nuovo secolo, che adorano lanciarsi in pretestuose filippiche pseudo-intellettuali sul linguaggio e che, una volta infilativisi, non trovano più la via d’uscita e vanno a parare per non dire sbattere da tutt’altra parte dando così ragione alla metà kantiana dei lettori e facendo sorgere autorevolissimi dubbi ai due eroi che stanno ancora eroicamente leggendo su qualsivoglia confutazione del presupposto di “imperativo categorico”; ma non – certo – sull’autostima, che – mi ripeto – potrebbe essere scalfita esclusivamente dall’univoca decisione di prendere queste parole come bluff e cedere dunque al maleficio della superficialità, cuore e anima, anima e corpo, corpo e spirito, giungendo financo a comprendere come le parole stesse siano del tutto irreali – ho detto “del tutto” – e inutili, pallide fonocopie del legame tra Vero e rappresentazione del Vero o semplicemente supposto, per non dire spesso semplicemente supposte, e posso garantirvi che non è amore per l’allitterazione fine a se stessa, il mio, almeno non più di quanto lo sia inconsapevolmente il vostro.
Fatta questa necessaria premessa – che potevate comunque saltare considerata la sua totale estraneità a quanto leggerete di seguito -, e quasi certo di una vostra subitanea reazione, l’occasione mi è gradita per porgere i più sentiti ringraziamenti agli arditi che ancora indugiano su questa pagina. La domanda che cerca risposta è semplice: è possibile trasformare “l’insignificanza del quotidiano in avventura permanente”? Ci hanno rubato persino lo spazio esistenziale in cui nasce l’urgenza dell’opera; uno spazio indefinito perché indefinibile e che interseca l’universo “reale” dell’uomo e quello immaginifico dell’artista. Ci stanno murando tra le comode e confortevoli mura del quotidiano. “Bisogna deturpare il quotidiano con piccoli gesti insensati,” qualcuno disse. Bisogna trasformare il quotidiano in onirico, io dico. Stuprare sul nascere e senza pietà i primi vagiti della ragionevolezza: la devastazione della Logica come cura della Logica stessa. Il linguaggio deve essere flesso, forzato, liquefatto: il patetico urlo di un sordomuto che rivendica la propria silenziosa esistenza. L’urlo di tutti gli Euchrid Eucrow di questo pianeta, un blues arcaico che si fonde con l’ala gotica del post-punk, e ridipinge la stessa parete con altri colori. Perché dopo un po’ ci si abitua anche alla stalla, a mangiare nella mangiatoia dove mangiano tutti.
Il quotidiano non è che un’allucinazione: solo così possiamo accettarlo e continuare a sperare di comprenderne una parte infinitesimale mentre fluttuiamo in un continuum decontestualizzato totalmente a-storico e totalmente a-critico che rifiuta le somiglianze nelle differenze: di classe, di genere, di gusti, di idee. Siamo talmente assuefatti e rapiti dall’Infinite Jest che non ci rendiamo più conto del potenziale di trasformazione personale (e collettivo) insito in ogni istante della nostra vita: abbiamo perso l’appetito per l’inaspettato. Peggio: siamo spaventati. Viviamo la nostra personale allucinazione all’interno dell’allucinazione collettiva tenuta in moto perpetuo dall’efficienza meccanica: tutto è pianificato, tutto è codificato, tutto è già deciso. Anche la ribellione, anche la disobbedienza. La stupidità è il nemico invincibile. Solo l’Arte, quando irrompe brutalmente nel quotidiano sottraendolo all’inerzia e contestandolo, colora di senso il b/n dei nostri cuori. Liberiamoci dell’etica, della morale, delle buone maniere. Basta operare uno slittamento semantico consapevole; oppure, per i più coraggiosi, leggersi Finnegans Wake.