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SPEAKER'S CORNERA RUOTA LIBERA
01/02/2024
Live Report
Slowdive, 31/01/2024, Alcatraz, Milano
Concerto bellissimo che conferma l’utilità degli Slowdive anche nel 2024, a maggior ragione con questa inaspettata conquista del pubblico giovanile grazie al ritorno dello Shoegaze, che ha permesso di riempire l'Alcatraz fino al sold out.

L’ultima volta che gli Slowdive sono passati da Milano era se non sbaglio il 2018 e l’Alcatraz, oltretutto allestito a capienza ridotta, era ben lontano dal sold out. Poco meno di sei anni dopo biglietti in cassa non ce ne sono più, la data di Bologna è andata esaurita settimane fa, l’Alcatraz è in pieno regime col palco grande e, particolare al limite del surreale, imballato di giovani e giovanissimi. Stiamo parlando di una band degli anni Novanta, che suona un genere non esattamente popolare, che si è riformata dopo vent’anni sull’onda dell’effetto nostalgia e della retromania imperante.

Cosa ci fanno tutti questi universitari e liceali a cantare “Alison” e “When the Sun Hits” e a lanciare urla a Rachel Goswell come se fosse Victoria dei Måneskin?

Ok, sto un po’ esagerando nel colorare l’atmosfera, ma non è che ci andiamo più di tanto lontani: abbiamo effettivamente visto un concerto italiano di una band “vecchia” che non fosse esclusiva assoluta di reduci attempati.

 

Cos’è successo dunque? Da quello che ho capito, Neil Halstead e soci avrebbero fatto il botto su TikTok, dove si starebbe anche assistendo (sempre secondo i miei informatori, non è un luogo che frequento molto, lo confesso) ad un inedito slancio di popolarità dello Shoegaze, un genere che, soprattutto negli ultimi anni, è sempre stato considerato roba da nerd, nonostante lo status di culto dei suoi esponenti principali.

Insomma, sarebbe un fenomeno non così diverso da quanto già visto con Tame Impala e Arctic Monkeys, il quale farebbe a sua volta parte di una generale rivalutazione della musica cosiddetta “alternativa”, soprattutto da quando serie Tv e programmi mainstream come X Factor la utilizzano in maniera sempre più disinvolta.

 

Meglio così, insomma. Ci lamentiamo sempre della scarsa cultura musicale di noi italiani, mi sembra giusto segnalare che ogni tanto ci sono delle eccezioni. Interessante anche un altro dato, relativo alla partecipazione: se durante i concerti di artisti Rap e It Pop non si riesce a vedere nulla a causa dei telefonini, la gente è lì per cantare a squarciagola le hit ma nel complesso disinteressata al lato puramente musicale della performance, spesso dando l’idea di non riuscire proprio a capire quel che sta avvenendo, qui è stato decisamente diverso: spettatori mediamente attenti, smartphone sì tirati fuori durante i brani più famosi ma non in numero eccessivo, generale silenzio e concentrazione anche durante i momenti meno orecchiabili.

Certo, non stiamo parlando dello stesso identico pubblico che va a sentire Calcutta; eppure avevo accanto ragazzi non più che ventenni che hanno partecipato con educazione ed entusiasmo, scusate se dico che non è affatto banale.

 

Torniamo a noi. Il tour in corso è a supporto di Everything is Alive, secondo atto degli Slowdive post-reunion, dopo l’omonimo disco del 2017. Se già allora si era parlato di un lavoro convincente, qui il livello si è alzato notevolmente, stiamo parlando di un titolo in tutto e per tutto degno di rivaleggiare con quei famigerati primi due album che hanno costruito la leggenda della gruppo britannico. Naturale dunque che ci fosse molta aspettativa di rivederli in azione; anche perché, a mio parere molto saggiamente, i nostri hanno lasciato passare un periodo di tempo adeguato prima di ritornare sulle scene.

Quando arrivo sul posto, poco prima delle 20, l’affluenza è già buona, così che i Pale Blue Eyes hanno la possibilità di esibirsi in condizioni adeguate. Personalmente attendevo con grande curiosità il loro set: niente di particolarmente innovativo o miracoloso, certo, ma i coniugi Broad nell’ultimo biennio hanno fatto vedere cose interessanti, prima con l’esordio Souvenirs, poi con l’altrettanto valido This House.

Sul palco sono in quattro, con Lucy Broad stabilmente dietro alle pelli, suo marito Matt che canta e suona la chitarra, il bassista Aubrey Simpson ed un secondo chitarrista che probabilmente viene utilizzato solo durante i live. Suoni ottimamente definiti e prestazione più che convincente, con il drumming di scuola motorik di Lucy a dare la spinta necessaria alle fughe a metà tra Dream Pop e Shoegaze messe in piedi dagli altri tre. Gran bel tiro e talento notevole anche nelle divagazioni strumentali a cui si abbandonano alla fine di alcuni brani; non hanno un repertorio di capolavori, ma “Sister”, “Spaces”, “Takes Me Over” e soprattutto la mezza hit “Tv Flicker” sono senza dubbio sopra la media. Nella loro Inghilterra sono di sicuro più conosciuti che qui; eppure, la risposta entusiasta del pubblico milanese lascia aperti margini di speranza sul rivederli da headliner.

 

Gli Slowdive si presentano sulle note della nuova “Shanty”, che apre l'ultimo disco. Brano leggero, sognante, ideale per acclimatarsi prima di entrare nel vivo dei giochi. La formazione è sempre la stessa, con Neal Halstead a chitarra e voce, Rachel Goswell che si divide tra tastiere e chitarra e che ovviamente canta, anche se nell’ultimo lavoro ha lasciato molto più spazio al suo collega. Christian Savill è l’altro chitarrista, la sezione ritmica è quella, rodata ed efficiente, di Simon Scott alla batteria e di Nick Chaplin al basso.

Non so come fossero prima, perché per ragioni anagrafiche non sono mai riuscito a vederli nel periodo pre-reunion. Mi bastano comunque una manciata di brani per capire che sono ancora al livello eccezionale in cui li avevo lasciati col precedente tour. Anche loro godono di suoni ben definiti così che si riesce a distinguere perfettamente ogni singolo strumento e, allo stesso tempo, il wall of sound che da sempre li contraddistingue ne esce ben delineato nelle sue strutture principali.

 

Con “Star Roving” si alza il ritmo, mentre “Catch the Breeze”, il primo grande classico, provoca più di un brivido lungo la schiena, soprattutto per il modo ispiratissimo in cui dilatano il finale, con le chitarre sempre in primo piano ed un basso meravigliosamente martellante (prova decisamente maiuscola, quella di Nick Chaplin). Resa incredibile anche per “Souvlaki Space Station” e “Chained to a Cloud”, quest’ultima indubbiamente la migliore esecuzione tratta dal nuovo disco, che non è stato purtroppo molto valorizzato (quattro brani su otto, ma non aver eseguito “Andalucia Plays” secondo me è imperdonabile).

Entusiasmo più che comprensibile per il singolo “Kisses”, sia perché è la traccia più immediata, ma probabilmente anche per il fatto che il video è stato girato a Napoli ed è dunque circolato parecchio sui vari Social. Dopo circa un minuto dalle prime file arrivano segnalazioni che qualcuno si è sentito male per cui la band si ferma, Rachel invita i medici ad intervenire e quando tutto è risolto la riprendono da capo.

 

Dal controverso Pygmalion viene eseguita sempre e solo “Crazy for You”, sperimentale ma comunque ben integrata nel resto del set, così come funzionano ancora molto bene i pezzi di Slowdive, con “Slomo” sempre emozionante e “Sugar for the Pill”, suonata nei bis, che a giudicare dalla partecipazione del pubblico sembra ormai essere divenuta un classico.

Parlando di classici, non può mancare il trittico da Souvlaki “Alison”, “When the Sun Hits” e “40 Days”, con fan in visibilio e singalong sui ritornelli. Sono brani simbolo di un’epoca ma, appunto, sono arrivati a conquistare anche i cuori dei più giovani, segno che, al di là della veste sonora indistinta e rumorosa, le melodie sono di una bellezza senza tempo.

Finale all’insegna di altri due capolavori: “Dagger”, che parte acustica e scurissima, per poi riempirsi e colorarsi poco a poco, e la solita “Golden Hair” di Syd Barrett, col suo finale meraviglioso in cui Neal Halstead e Christian Savill portano al massimo livello la bellezza che nasce dalla ripetizione.

 

Concerto bellissimo, che conferma l’utilità degli Slowdive anche nel 2024, a maggior ragione con questa inaspettata conquista del pubblico giovanile.

Unico neo: il fatto che la scaletta sia stata pressoché identica a quella del tour precedente. Vero che non hanno un repertorio così vasto, vero che certe cose non si possono lasciar fuori, altrettanto vero però che si poteva essere un po’ più coraggiosi e recuperare episodi, anche dai dischi storici, che al momento sembrano dimenticati. Un effetto da pilota automatico che chi li vedeva per la prima volta non ha certo avvertito, ma che non posso esimermi dal sottolineare.