Fin dagli esordi, Tyler Childers ha incarnato un paradosso: nato e cresciuto nel Kentucky più rurale, con un immaginario radicato tra miniere, chiese battiste e valli boscose, ha passato la carriera a scappare dai confini del genere che teoricamente dovrebbe rappresentare. Come il suo mentore Sturgill Simpson (che gli ha prodotto i primi due album e condivide con lui il gusto per una certa devianza sonora), Childers non ha mai interpretato la tradizione come un museo, ma come uno strumento da smontare, riassemblare e, all’occorrenza, prendere a martellate.
La sua discografia è un diario di fuga: Purgatory (2017) e Country Squire (2019) lo hanno rivelato come un talento ruvido e genuino, ma già nel successivo Long Violent History (2020), un album quasi interamente strumentale, era chiaro che Childers non avrebbe mai offerto una seconda dose della stessa formula. Con Can I Take My Hounds to Heaven? (2022) ha provato a inventarsi un gospel psichedelico diviso in tre versioni, mentre con Rustin’ in the Rain (2023) ha giocato a fare il cantautore tradizionale, ma con una consapevolezza modernissima. Tutto lasciava intendere che il suo lavoro successivo sarebbe stato imprevedibile; nessuno, però, poteva immaginare questo.
Snipe Hunter è il settimo album di Childers e il primo in cui l’artista sembra aver deciso di registrare tutto ciò che gli passava per la testa, senza chiedersi se avesse un senso. Paradossalmente, è proprio questa apparente assenza di controllo a renderlo così vivo. Se i dischi precedenti apparivano studiati e minuziosi nel loro rapporto con la tradizione, Snipe Hunter ricorda un taccuino sgualcito, riempito durante un viaggio in cui ogni deviazione laterale è più interessante della meta.
Il merito va in parte a Rick Rubin, che negli ultimi anni sembrava aver perso un po’ della sua aura sacerdotale. Qui, però, il leggendario produttore si comporta come un regista invisibile: non impone geometrie né filosofie zen, ma lascia respirare lo studio e soprattutto lascia respirare Childers. A completare il cast ci sono Nick Sanborn dei Sylvan Esso (al quale Childers ha consegnato le tracce dicendo semplicemente: «Put the drugs on it») e Shawn Everett, il cui mixaggio è così radicale da sembrare a tratti un esperimento antropologico sulla resistenza del country al caos.
Il risultato è un disco volutamente disunito, che alterna garage rock, gospel, funk, mantra hindu e ballate appalachiane. È come osservare qualcuno costruire un puzzle usando pezzi di scatole diverse: dovrebbe essere un disastro (e a volte lo è), ma proprio in questo disordine si nasconde un’originalità che pochi artisti contemporanei osano anche solo immaginare.
Chi conosce Childers sa che il suo humour è sempre stato presente, ma non mai stato così esplicito. In Snipe Hunter, la comicità diventa un linguaggio parallelo, necessario per impedire all’album di collassare sotto il suo stesso peso emotivo. Ne è un esempio perfetto “Bitin’ List”: con il susseguirsi di nomi di persone che l’autore morderebbe se un giorno si svegliasse affetto da rabbia, è un pezzo di teatro dell’assurdo. “Down Under”, invece, trasforma un tour australiano in una farsa ben calibrata, con Childers che medita sul timore (clinicamente plausibile o meno) di contrarre malattie veneree dai koala.
È humour “rural-british”, se una tale categoria esistesse: eccentrico, autoironico e intriso di un senso di allegro fatalismo. Ma non è semplice comicità: il riso, per Childers, è un modo per disinnescare il dolore senza negarlo. La lezione è ereditata direttamente da John Prine, la cui ombra gentile aleggia sull’intero progetto: la capacità di mischiare tragedia e farsa senza che nessuna delle due perda intensità.
Tutto sommato, il tema centrale del disco è il viaggio, inteso non tanto come movimento geografico, ma come tensione verso l’altrove. È la ricerca di un punto in cui spiritualità e quotidiano si incontrino senza rompersi a vicenda. In “Tirtha Yatra”, infatti, Childers intreccia il desiderio di un pellegrinaggio in India con la semplicità di una passeggiata nei boschi di casa, citando passi dal Bhagavad Gita accanto a espressioni tipicamente hillbilly. È un brano che (sulla carta) avrebbe dovuto fallire in modo spettacolare; eppure funziona, con quella stessa logica un po’ allucinata che rendeva Blonde on Blonde di Bob Dylan un monumento all’arte del compromesso impossibile.
“Tomcat and a Dandy” compie invece l’operazione inversa: qui un mantra Hare Krishna si intreccia con melodie scozzesi e canti appalachiani, rivelando un filo rosso che unisce culture apparentemente incompatibili. Non c’è esotismo qui, né appropriazione culturale: c’è invece il riconoscimento che le tradizioni, quando prese per la coda, tendono sorprendentemente a somigliarsi.
In mezzo a tanta sperimentazione, Childers trova spazio per guardare indietro. “Nose on the Grindstone”, da anni cavallo di battaglia dei suoi concerti, riceve finalmente una versione in studio. Il linguaggio è stato appena ripulito, ma l’intensità rimane intatta. È un inno all’etica del lavoro, senza retorica né sentimentalismi. “Oneida”, anch’essa già nota al pubblico, torna invece in una veste più stratificata, meno ruvida. Ma non è nostalgia, è un artista che rilegge le sue stesse canzoni come se appartenessero a qualcun altro, testandone la resistenza al tempo e alle nuove forme che la sua musica sta assumendo.
Uno degli aspetti più ammirevoli del lavoro di Childers è la sua capacità di essere politico senza diventare didascalico. Non predica, non tiene comizi; semplicemente, osserva e agisce. La decisione di smettere di eseguire la sua hit “Feathered Indians” e di devolvere i proventi alle comunità indigene non è un gesto compiuto tanto per seguire lo zeitgeist, è una presa di responsabilità rara in un’industria che preferisce evitare di disturbare il pubblico. Allo stesso modo, il video di “In Your Love”, singolo di lancio di Rustin’ in the Rain, è stato un evento culturale: una storia queer ambientata in un contesto rurale, raccontata con una naturalezza scevro da retorica. Snipe Hunter continua su questa linea. È un disco che non vuole insegnare niente a nessuno, ma che suggerisce che cambiare idea è possibile – e che farlo pubblicamente è un atto politico.
Forse il tratto più toccante dell’album è quello che si può leggere tra le righe. Childers è diventato padre da poco, e in molte canzoni sembra parlare anche al figlio, come se stesse lasciandogli una serie di piccole parabole per orientarsi nel mondo che verrà. “Watch Out”, con le sue istruzioni su funghi velenosi e serpenti da evitare, è insieme un manuale di sopravvivenza e una metafora sul crescere. Ciò che potrebbe sembrare un gesto di protezione diventa invece un invito a muoversi nel mondo con attenzione e curiosità.
Il disco, nella sua interezza, sembra costruito sull’idea che la coerenza sia sopravvalutata. Dove molti artisti, una volta raggiunta la fama, preferiscono ripetere la formula del successo, Childers sembra disposto a rischiare tutto a ogni album. E (dettaglio non irrilevante) a vincere. “Snipe Hunt”, con un’energia quasi punk che trasforma un vecchio scherzo da campeggio in una metafora dell’esistenza, è uno dei momenti più sorprendenti del disco. “Dirty Ought Trill”, dedicata all’amico Dylan, chiude invece il disco con un inno all’amicizia e alla creatività disordinata, sorretto da una steel guitar che sembra venire da un’altra dimensione.
Insomma, Snipe Hunter è un album che rifiuta il concetto stesso di compromesso. Ride, sanguina, inciampa, si rialza e ricomincia a correre. Non offre coerenza formale, ma offre qualcosa di più prezioso: la sincerità di un artista che continua a cercare – e che nella ricerca trova la propria verità. La metafora finale è scritta nel titolo: lo “snipe”, la beccaccia immaginaria delle burle da campeggio, non esiste. Eppure Childers continua a inseguirla. Non perché speri di trovarla, ma perché nella caccia (nel movimento stesso, nell’errore, nelle deviazioni) si rivela la natura più profonda dell’arte. E forse anche della vita.

