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REVIEWSLE RECENSIONI
So Much (For) Stardust
Fall Out Boy
2023  (Fueled By Ramen)
PUNK ALTERNATIVE ROCK BLACK/SOUL/R'N'B/FUNK POP
8/10
all REVIEWS
05/05/2023
Fall Out Boy
So Much (For) Stardust
Teatrali, emotivi, pop, ironici, riflessivi, accattivanti e disadattati. I Fall Out Boy sono tornati per condensare influenze vecchie e nuove in un unico album, “So Much (For) Stardust”, una colonna sonora irresistibile e cinematografica, dai toni coloratissimi e i testi cupi, capace di far pensare guardando il cielo notturno ma anche di far ballare sotto le stelle più luminose.

I Fall Out Boy non hanno bisogno di molte presentazioni. Si sono fatti conoscere a inizio anni Duemila in piena ondata emo-pop-punk con Take This to Your Grave (2003), From Under the Cork Tree (2005) e Infinity on High (2007), dove non hanno potuto che imporsi grazie al connubio tra i testi emo del bassista Pete Wentz e la potente voce soul di Patrick Stump, i quali hanno permesso di rendere i Fall Out Boy l’act che mancava nel panorama del genere, di norma appiattito su una dinamica tra voci e arrangiamenti molto più canoniche. Hanno poi sperimentato con Folie à Deux nel 2008, aggiungendo un po' di influenze power pop, R&B e orchestrali, per ripresentarsi qualche anno dopo con un disco a cavallo tra rock e pop come Save Rock and Roll nel 2013, sulla cui scia è stato successivamente pubblicato anche American Beauty/American Psycho nel 2015. Nel 2018 la sperimentazione è stata ancora più massiccia e l’influenza del pop si è fatta ancora più pesante, andando a confezionare il danzereccio e iper-prodotto elettro-pop di Mania nel 2018, molto criticato dai fan, anche se in realtà assolutamente piacevole.

 

Passano cinque anni, il mondo cambia e i quattro di Chicago decidono di fare come i veri viaggiatori: tornare a casa dopo lunghe peregrinazioni, ma con la consapevolezza che il ritorno non è solamente un riprendere in mano le vecchie abitudini, ma un rinnovarle delle multiformi esperienze provate, infondendole di nuovo senso, nuove energie e nuovi stimoli.

Patrick, Pete, Andrew e Joe tornano quindi da un lato da Neal Avron, il produttore che li aveva accompagnati nei tre più amati album della loro carriera (From Under the Cork Tree, Infinity on High e Folie à Deux), aiutandoli a definire il loro caratteristico sound, e dall’altro con Fueled By Ramen, etichetta con cui avevano pubblicato il primo disco della loro carriera, Take This to Your Grave.

Riprendono quindi contatto con le loro radici, ma ricchi ora di una folta e ribelle chioma di fronde, capaci di fondere con rinnovata consapevolezza l’emo-pop-punk delle orgini con la loro prepotente anima pop, soul e rock da arena, senza perdere nemmeno un briciolo della consueta teatralità, che anzi, diviene in questa sede ancor più cinematografica nei suoni, nei video e nelle intenzioni, forse corroborata anche dalle diverse esperienze del soul-frontman Patrick Stump nell’ambito del cinema e della televisione.

 

So Much (For) Stardust è un compendio di chi sono i Fall Out Boy quarantenni di oggi: quattro musicisti completi, padroni dei propri mezzi e perfettamente consapevoli di cosa sono in grado di comunicare, incarnare e realizzare. L’album è ricco, colorato e multiforme. Se ci si ferma al suono e ad un ascolto superficiale è tutto da ballare e cantare a squarciagola, come se si potesse vivere per una quarantina di minuti dentro una favolosa discoteca dalle più svariate influenze (pop, rock, funk, soul), tanto che anche solo a camminarci per strada si rischia di iniziare a ballare sui marciapiedi attirando gli sguardi straniti dei passanti. Se si prende in considerazione solo il lato video e ludico si apprezza la sempre inesauribile ironia e divertimento dei quattro, capaci di confezionare dei video che sono come dei piccoli film delle loro avventure (e sì, dico quattro, perché nonostante il chitarrista Joe Trohman abbia dichiarato che si allontanerà dalla band per un po' per problemi di salute mentale, ha attivamente – e ottimamente – suonato all’interno del nuovo disco e partecipato ai video, semplicemente non prenderà parte ai tour). Se però si prendono in considerazione anche i testi, allora si inizia ad osservare un nuovo tipo di profondità, ironica e non scontata, poiché anche dietro ai brani più solari e sgargianti si nascondono testi cupi, sferzanti e irti di piccole e pungenti battute, degne della migliore penna di Pete Wentz.

So Much (For) Stardust stesso, all’interno del suo titolo, nasconde questa duplicità. A seconda che si interpreti con o senza parentesi, può essere letto come un'espressione di sconfitta, di rinuncia ai propri sogni o come una prospettiva positiva, di salita alle stelle, come di chi è ancora capace di lasciarsi incantare dalle bellezze della vita.

 

Il disco si apre con il bellissimo singolo “Love From the Other Side”, un’epopea pop degna dei migliori Fall Out Boy, dai toni prepotentemente cinematografici piena di battute pungenti (“Non ci andrei mai, volevo solo essere invitato”) e di riflessioni apocalittiche sul dolore (“Per cosa scambieresti il dolore? Non ne sono sicuro. Noi eravamo il martello per la Statua di Davide, noi eravamo un dipinto che non avresti mai potuto incorniciare e tu eri il raggio di sole di tutta la mia vita. Mando il mio amore dall'altro lato dell'apocalisse, e sono quasi impazzito, non voltarti indietro. Non ci resta altro posto dove andare se non il Paradiso. L'estate ci cade di nuovo tra le dita e tu eri il sole della mia vita. Per cosa scambieresti il dolore?”).

“Heartbreak Feels So Good”, a seguire, è un classico che rimane in mente in particolare per l’ottimo chorus “Potremmo piangere un po', piangere molto. Non smettere di ballare, non osare smettere”.

“Hold Me Like a Grudge”, invece, è uno dei singoli più riusciti dell’album, merito di un groove trascinante che unisce un mood da disco-funky con una linea di basso che ruba la scena, permettendo alla testa di non riuscire a governare quello che comandano i piedi – troppo impegnati a muoversi – e le mani – già immerse in un handclap da stadio.

 

Con “Fake Out” si rallenta un po' il ritmo, e i Fall Out Boy concedono una traccia più morbida ed elegante, quasi indie-pop, apparentemente lieve ma costellata di battute emo-sarcastiche (“Ridi di me ogni volta che me ne vado o ho solo bisogno di più terapia? L'amore è nell'aria, devo solo trovare una finestra per evadere”), riflessioni tristi, amare e pessimiste (“Ricordarci così per sempre, ma questo non può durare, non durerà, quindi non faccio piani e nessuno può essere infranto”) e pensieri disillusi (“Abbiamo tutti iniziato come monetine lucenti, ma siamo stati girati troppe volte. Lo abbiamo fatto per futuri che non sono mai arrivati, e per passati che non cambieremo mai”).

I toni rimangono delicati su “Heaven, Iowa”, che dopo poche battute prende però il corpo di una power ballad ricca di sfavillanti riferimenti soul anni Ottanta dalle dinamiche degne di una colonna sonora dell’epoca, tanto da ricordare quasi “In The Air Tonight” di Phil Collins (“Due volte i sogni, ma metà dell'amore. Fai attenzione a ciò che imbottigli, la chimica è un casino, a quanto pare, ma io sono ancora un raggio di sole. Ho chiuso gli occhi nella tua oscurità e ho trovato il tuo bagliore”).

 

Con “So Good Right Now” si torna a danzare come nei più gioiosi richiami ai film anni Cinquanta, un classico pezzo che obbliga alle scarpe da ballo e fa pentire di non avere mai preso una lezione di acrobatic twist o di rockabilly, tanta è la voglia di prendersi il palco e allestire la scena di un musical. Sarà perché prende a piene mani da “Little Bitty Pretty One” di Bobby Day? Anche se poi il caro Pete Wentz non può di certo lasciarci sognare in pace, visto che la cupa ironia non può che fare capolino sbarazzina: “Ci sentiamo così bene in questo momento, finché non ci schiantiamo e bruciamo in qualche modo”.

 

L’allegria sciama subito, ma principalmente perché si arriva a metà album e la successiva è “The Pink Seashell”, non una canzone ma un frammento del monologo di Ethan Hawk da Reality Bites (1994) sull’insensatezza della vita. Il personaggio di Hawk, Troy, parla del padre che gli regala una conchiglia rosa e spiega: “Tutte le risposte sono dentro questa”. Come ha spiegato lo stesso Pete Wentz in un’intervista a NME nel 2020 (tre anni prima dell’uscita dell’album): “Troy ha capito che il guscio è vuoto e forse la vita è inutile. È tutta una lotteria casuale di tragedie senza senso in una serie di fughe sfiorate. Ecco perché gli piacciono le piccole cose della vita, come mangiare un hamburger o fumare una sigaretta. Penso che ci sia un intero disco da questa prospettiva, che prende parte di questi piccoli pezzi di vita senza conseguenze. È importante non dimenticare questi piccoli momenti granulari della vita. Per me c'è un disco in quella conchiglia rosa”.

 

Il disco riprende la sua corsa con i drammatici e cinematografici archi di “I Am My Own Muse”, che ci introducono in uno spettacolo di luci, ombre e vibranti tocchi orchestrali, ricordando quanto l’influenza di Elton John possa farsi sentire anche in una band che è più vicino al suo spirito di quanto non si possa superficialmente pensare.

“Flu Game” si identifica come un classico brano della band, che vuole questa volta essere testimonianza di perseveranza di fronte alle difficoltà. Il titolo della canzone si rifà infatti ad una nota dichiarazione di Michael Jordan, che nel 1997 giocò una partita nonostante fosse malato, facendola passare alla storia come “flu game”; un “gioco” che portò i Bulls a vincere 90-88 contro gli Utah Jazz, una partita rimasta negli annali come “una delle gare sportive più iconiche della storia” anche per l’atteggiamento mentale di Jordan, che è esattamente quello che Wentz vuole incoraggiare in chi lo ascolta: “Non volevo arrendermi, non importa quanto fossi malato o stanco”.

 

Con la successiva “Baby Annihilation”, però, l’ascoltatore viene nuovamente accompagnato in un intermezzo da un minuto, questa volta uno spoken-word dello stesso Pete Wentz (il primo dopo quello su Folie à Deux): “Il tempo è fortuna, e vorrei che il nostro si sovrapponesse di più o più a lungo. Foglie arancioni ma siamo noi a cadere dagli alberi. La prima volta che mi sono tolto la maschera, ne avevo solo un'altra sotto. Sono solo cera fusa su una torta di compleanno, un altro anno svanisce. Carbone schiacciato, febbre magica, polvere d'angelo. Bloccati in una terra desolata che abbiamo ricoperto di glitter e trasmesso solo per un po' di serotonina. Autosabotaggio al massimo, sotto il tuo incantesimo, ma sai come si dice: ‘Se vuoi che un lavoro sia fatto bene, devi farlo da solo’. Questo palazzo era di cristallo, ma il mondo era uno scherzo crudele. Cosa c'è tra noi, se non un po' di annientamento?”.

 

Si arriva quasi alla fine con “The Kintsugi Kid (Ten Years)”, dove Wentz continua la sua riflessione in musica, permettendo a Stump di cantare la sua storia di tossicodipendenza (“Ho trascorso 10 anni, 10 anni in un'amara nebbia chimica. E mi è mancato il modo in cui mi sentivo”). Quasi a complemento del viaggio arrivano poi le vibrazioni disco e soul di “What a Time To Be Alive”, che questa volta richiamano quasi “December” degli Earth Wind and Fire.

La vera conclusione, però, è lasciata a “Love From the Other Side”, che con auto-referenziale eleganza richiama alla prima traccia del disco in una suggerita circolarità. Si arriva alla fine pronti per ricominciare? E il nuovo inizio avrà lo stesso sapore del primo o sarà speziato di nuovi toni e colori?

 

So Much (For) Stardust si impone come uno dei più interessanti album della carriera dei Fall Out Boy, pronto a inaugurare il loro terzo decennio insieme sotto la migliore delle stelle, quella della consapevolezza dei propri mezzi, dell’urgenza dei contenuti, della calma nel farli maturare e acquistare la loro forma più congeniale, della teatralità sfacciata nei modi, dell’ironica contraddittorietà fatta di depressioni, apocalissi, emozioni, gioie, confessioni e fugaci punte di ottimismo tipiche dell’essere umani e del non aver paura a mostrarlo. Inadeguati, disadattati eppure al contempo così al posto giusto su un enorme palco da cui poter condividere tutte le loro dicotomiche emozioni con chi, tra il pubblico, non può che ballare e cantare assieme a loro ogni lacrima e stanchezza, sapendo di essere compreso.

La polvere di stelle che tutti e noi siamo e a cui tutti prima o poi ritorneremo, nel tempo di una vita in continuo equilibrio tra sorrisi e apocalissi, non può che illuminarci verso il nostro fulgido destino, permettendoci di cementare le crepe nei nostri animi e gioire anche delle più piccole (ma molteplici) meravigliose scintille sparse nel nostro presente.