Molto probabilmente Brandi Carlile ha espresso le perplessità di molti quando con una battuta ha commentato su Instagram una delle promo con cui John Mayer ha accompagnato l’uscita del suo ottavo album, Sob Rock: «Non so se stai facendo sul serio o se ti stai solamente divertendo un sacco a prenderci tutti in giro». Già, perché a giudicare dal titolo del disco, dalla grafica, dai surreali copy (uno su tutti: «Life is hard. Rock soft»), dal bollino “The Nice Price” ricreato ad arte in copertina e dal video in cui Mayer sfreccia per le strade di Malibù a bordo di una Porsche ascoltando Sob Rock a tutto volume (in cassetta!), il dubbio sorgeva spontaneo: cosa diavolo sta succedendo? Domanda più che legittima, dal momento che in passato Mayer ha fatto ben poco per far emergere questa sua vena leggera e autoironica, proponendosi piuttosto da un lato come un novello Sting, impegnato a realizzare dischi ambiziosi dai toni sobri e riflessivi studiati in ogni minimo particolare, e dall’altro come il bel ragazzo della porta accanto che suona la chitarra come pochi e riversa nei testi tutta la sua sensibilità.
Arrivato a quattro anni da The Search of Everything, nel quale Mayer ha tentato una sintesi tra il Pop/Soul di Continuum, le suggestioni Roots di Born and Raised e Paradise Valley e il Soft Rock dei Fleetwood Mac di Rumours, Sob Rock ha il suo terreno di coltura nel Rock della seconda metà degli anni Ottanta, quando l’alta fedeltà promessa dal compact disc e i grossi budget concessi dalle case discografiche hanno permesso ai vari artisti di utilizzare le tecnologie più avanzate e ingaggiare i migliori turnisti sulla piazza per realizzare le loro visioni musicali. Sono gli anni della ricerca della perfezione sonora e di album dai credits sterminati come Brothers in Arms dei Dire Straits, The Seeds of Love dei Tears for Fears, Back in the High Life di Steve Winwood, The End of the Innocence di Don Henley, Boys and Girls di Bryan Ferry, Journeyman di Eric Clapton; colossal della musica che fotografano alla perfezione quel preciso momento in cui le rockstar iniziano a indossare larghi completi sartoriali firmati Giorgio Armani e il Soft Rock vira irrimediabilmente verso lo Yacht Rock.
Per dare forma alla sua visione, però, Mayer non ha chiamato a sé folle sterminate di musicisti, ma piuttosto ha preferito lavorare come un artigiano, attorniato da un ristretto gruppo di collaboratori (Sean Hurley al basso, Aaron Sterling alla batteria e la star del Country Maren Morris), guidati dal veterano Don Was. E se alle canzoni serviva quel peculiare tocco in più, Mayer non si è limitato a reclutare dei semplici imitatori, ma ha convocato direttamente gli originali, come i leggendari Pino Palladino (basso), Lenny Castro (percussioni) e Greg Phillinganes (tastiere), che gli anni Ottanta li hanno vissuti di persona e in quei dischi ci hanno suonato sul serio.
Una volta ascoltata la prima rullata di batteria di “Last Train Home”, il singolo che apre Sob Rock, è inevitabile non pensare a “Rosanna” e “Africa” dei Toto: con quei synth così pronunciati e quei particolari lick di chitarra, è matematico sentirsi trasportati in Toto IV, il capolavoro della band di David Paich e Steve Lukhater. Così come non si può non pensare ai Dire Straits di Brothers in Arms ascoltando “Why You Not Love Me” e “Wild Blue”, con la prima che recupera l’arpeggio di “Why Worry” e la seconda che vede Mayer impegnato in un assolo che sembra uscito dalle dita magiche di Mark Knopfler. E se in “Shouldn’t Matter but It Does” e “New Light” John torna a calcare gli abituali territori del Folk Rock e del Soul/Pop à la Dave Matthews che hanno lanciato la sua carriera, in “Shot in the Dark” prende invece spunto dai Fleetwood Mac di Mirage e Tango in the Night, tanto che nella parte finale della canzone non è difficile intravvedere lo spettro di Lindsey Buckingham. Nel gioioso Country Rock di “Til the Right One Comes”, invece, fanno capolino i Grateful Dead (con tre dei quali Mayer suona nei Dead & Company), ma non quelli psichedelici degli anni Settanta bensì quelli dell’inaspettata hit di MTV “Touch of Grey”. Prima di congedare l’ascoltatore con “All I Want Is to Be with You”, in cui Mayer guarda agli U2 di “All I Want Is You” (e anche ai Backstreet Boys di “I Want It That Way”, provare per credere), in “Carry Me Away” e “I Guess I Just Feel Like” John regala i momenti più introspettivi dell’album, fra il George Harrison di Cloud Nine e l’Eric Clapton di Behind the Sun.
È vero, arrivati a questo punto è facile sostenere come Sob Rock sia solo l’ultimo di un lungo elenco di album che hanno cercato di ricreare in vitro gli anni Ottanta, da Future Nostalgia di Dua Lipa a 1989 di Taylor Swift, passando per i recenti lavori di Killers (da sempre un incrocio tra i Cars e il Bruce Springsteen di Tunnel of Love), War on Drugs (Dire Straits), Bon Iver (Peter Gabriel) e Tame Impala (impegnati fin dagli esordi a far convivere Supertramp, Bee Gees e Michael Jackson). Ma in Sob Rock c’è una differenza, sostiene Mayer: «Questo non è un disco in “costume”», è piuttosto il tentativo di realizzare, nel 2021, un album con le stesse tecniche degli anni Ottanta, non ricreandole in laboratorio bensì usando «il telaio originale». Guidato dalla massima «Fai finta che qualcuno abbia fatto un disco nel 1988, l’abbia archiviato, e che sia stato trovato proprio quest’anno», Mayer si è cucito su misura uno dei vestiti più riusciti della sua carriera, nel tentativo di riassaporare ancora una volta quell’irripetibile sensazione di pura innocenza e sconfinata meraviglia tipica dell’infanzia, quando, sdraiati nel soggiorno dei propri genitori, ci si ritrova ad ascoltare per la prima volta quella musica che cambierà per sempre la nostra vita.