Ci sono due riflessioni che l’uscita del nuovo album di Lorde potrebbe suscitare, almeno ad un livello superficiale: la prima riguarda il processo in continuo divenire che la forma della musica sta assumendo negli ultimi anni, nel passaggio dal supporto fisico a quello puramente digitale. Sono discorsi vecchi ma l’artista neozelandese ha in qualche modo fatto un passo avanti: di “Solar Power”, almeno della versione cd, è uscita solo la confezione. C’è un cofanetto, un poster, delle cartoline, un libretto con foto e testi, il tutto in materiale rigorosamente biodegradabile. Il cd non c’è, al suo posto un link per il download in alta definizione delle canzoni. Ad invogliare l’acquisto, la tracklist presenta due canzoni in più, di cui una è, se possibile, la più bella dell’intero album (ci arriviamo). Al di là della motivazione ecologista (“Non volevo fare qualcosa che finisse in discarica dopo un paio d’anni!”), la mossa è a mio parere interessante perché ci dà conferma di quello che da diversi anni era divenuto evidente: la gente che acquista musica paga ormai soprattutto per avere qualcosa che giustifichi i soldi spesi e quel qualcosa, nell’epoca dello streaming, è ovviamente rappresentato dalla confezione. Che poi potrebbe anche spiegare il motivo per cui, effetto nostalgia a parte, i cofanetti e le varie edizioni deluxe siano oggi così diffuse.
La seconda riflessione ha a che fare con la sopravvivenza dell’artista nel tempo e con il suo rapporto con la contemporaneità: per una come Lorde, che a sedici anni aveva già raggiunto un livello di popolarità impensabile per la quasi totalità dei suoi colleghi, il prosieguo di carriera dev’essere stato di una difficoltà inimmaginabile. Soprattutto in un’epoca come questa, dove i cammini lunghi e tortuosi quasi non esistono più, sostituiti da una capitalizzazione sempre più ansiosa di un’istantanea, quanto effimera celebrità. Per dire, già il fatto che ci abbia messo quattro anni a ritornare sulle scene e nel frattempo sia esplosa Billie Eilish, che ha pubblicato i suoi primi singoli alla stessa età in cui lei impazzava con “Royals”, dovrebbe stimolare parecchi ragionamenti.
Credo invece che Ella Marija Lani Yelich-O’ Connor se ne freghi di tutto questo, se l’idea che mi sono fatto di lei corrisponde un minimo alla verità. L’ho vista dal vivo per la prima volta a Melbourne, verso la fine del tour di “Pure Heroine”, e già all’epoca mi aveva dato l’impressione di una coi piedi saldamente piantati a terra, una ragazza sincera e genuina, che stava sul palco senza filtri e che si rapportava al pubblico che gremiva il piccolo club in cui si era svolto il concerto, come se stesse in cameretta con i suoi migliori amici. Molto sobria anche negli anni successivi, sia nel look che nel modo di imbastire i propri spettacoli, che sono sempre rimasti alieni da ogni “plasticosità” e sovrabbondanza di effetti speciali tipici di quelli di molte Pop Star. Da una così, non ci si può certo aspettare un’ansia da prestazione o un rincorrere frenetico delle aspettative del pubblico.
E infatti. “Solar Power” esce quattro anni dopo “Melodrama”, lavorazioni ritardate per la morte del suo cane Pearl (decido volontariamente di non trattare questo aspetto della questione per non incorrere in un più che probabile linciaggio animalista) ed è talmente diverso dai due lavori precedenti da farci più volte dubitare che si tratti della stessa artista.
Se ne sono scritte parecchie, sul fatto che si tratti di un disco politico, ispirato al cambiamento climatico e altre affermazioni di questo tenore. La verità è che, se si eccettua “Fallen Fruit”, che contiene diverse immagini esplicite in questo senso, “Solar Power” si configura, esattamente come gli altri, come un racconto intimo e personale di una particolare fase della vita, in questo caso quella dei venticinque anni. Lei stessa ha parlato di queste canzoni come il tentativo di creare uno spazio sereno, di raccontare la bellezza e la piacevolezza della vita anche in circostanze drammatiche come possono essere il Covid e la crisi climatica. Il tutto non senza ironia, come quando in “Mood Ring” bacchetta neanche troppo velatamente la pratica diffusa di trovare la propria pace interiore attraverso una versione banale e superficiale della spiritualità orientale.
Per il resto, c’è la sparizione dai Social (la title track), la normalità desiderata ma anche pericolosa della vita off tour (“Stoned at the Nail Salon”), il ricordo di un ex che potrebbe essere lo stesso di “The Louvre” (“Dominoes”) e ovviamente l’immancabile brano dedicato al cane (“Big Star”, su cui sorvolo per i motivi di cui sopra). Insomma, niente di molto diverso dai dischi precedenti e anzi, se si dovesse individuare un filo conduttore che unisca passato e presente, la scrittura dei testi, anche a livello stilistico, sarebbe ciò che più lo rappresenta.
Musicalmente le cose sono molto più complesse: Ella Marija ha lavorato ancora una volta con Jack Antonoff (che a quanto pare tiene per gli altri le sue cose migliori, a giudicare dal fatto che, pur con un autore del genere, il nuovo Bleachers è solo piacevole, nulla più) ma il risultato finale non avrebbe potuto essere più diverso da “Melodrama”.
C’è poco, pochissimo Pop da classifica, se il termine di paragone sono brani killer come “Royals”, “Tennis Court”, “Green Light” o anche solo cose come “Buzzcut Season” o “Supercut”, che erano più ricercate ma possedevano ugualmente una forza melodica non indifferente.
A dominare in questa sede sono soprattutto le chitarre acustiche, qualche tastiera, ogni tanto un flauto ed un violino, una sezione ritmica ridotta all’osso e una vocalità soffusa, a tratti eterea, con l’uso del falsetto in molti casi predominante. Da una parte si ha l’impressione che i due abbiano voluto scarnificare il più possibile il Pop da classifica del progetto Lorde, senza sacrificarne l’immediatezza ma rendendolo in qualche modo più riflessivo. Dall’altra, la tentazione è di affermare che abbiano deciso a priori di essere più cervellotici e meditativi nella scrittura, che la priorità sia stata quella di creare brani “di ascolto” piuttosto che “da ballo”. Le critiche (non poche) che sono piovute in questi giorni sul disco, hanno senza dubbio interiorizzato quest’ultimo aspetto ma credo che si tratti di un’analisi riduttiva. Per come la vedo io (e un po’ l’ha anche spiegato lei) Lorde è cresciuta e non ha voglia di fare sempre le stesse cose, è uscita da un periodo non facile e la ritrovata serenità ha coinciso con la scrittura di canzoni che non sono liberatorie ma che suonano senza dubbio pacificate, pur incorporando un retrogusto di malinconia, quasi a riflettere quella tristezza che, volenti o nolenti, si ritrova anche nelle circostanze più felici dell’esistenza.
La conseguenza più immediata è che si tratta di un lavoro molto più cantautorale dei precedenti, che ammicca più volte agli anni ’60 e ai ’70 e che, senza troppo snaturare quello che Lorde è sempre stata, potrebbe piacere anche a chi in passato l’aveva considerata troppo leggera (attenzione però che rispetto agli ultimi dischi di Lana Del Rey e Taylor Swift siamo su territori molto diversi).
Un giudizio concreto? Vale a dire: questo “Solar Power”, alla fin fine, è bello o no? Direi una via di mezzo: alcune cose sono uscite particolarmente bene, altre sono nella norma; in generale, opinione del tutto personale, mi sta piacendo meno di “Melodrama” ed il fatto stesso che stia usando il presente significa dopotutto che in futuro potrei anche cambiare idea.
Funzionano molto bene i singoli, che sono poi quelli con cui conviviamo da più tempo: “Solar Power”, che pur con un vestito scarno sa tenere adeguatamente alto il ritmo, grazie sopratutto ad un ritornello che cita in maniera esplicita i Primal Scream di “Screamadelica”. “Stoned at the Nail Salon”, senza dubbio una delle migliori, ballata malinconica e sottilmente disperata, con un ritornello straordinario dove si parla di cose che appassiscono e dell’importanza di tenersi aggrappati a ciò che si ama. E poi “Mood Ring”, che riflette il lato più accattivante del disco, leggera nei suoni ed efficace nell’andamento melodico.
Parlando del resto della scaletta, colpisce l’opener “The Path”, che, se parafrasassimo alcuni dei versi, potrebbe mettere in chiaro uno dei concetti più importanti di questo lavoro: non aspettatevi il disco che salvi la musica Pop, questo è semplicemente il punto di cammino in cui questa ragazza venticinquenne si trova ora.
“Fallen Fruit” è un altro highlight, leggera eco dei Beach Boys più intimisti, violino e flauto a creare un leggero tappeto orchestrale, piacevoli intrecci vocali grazie al contributo delle amiche Clairo e Phoebe Bridgers. E ancora, “Dominoes”, che è forse quella che conserva di più la componente Pop, con anche una sezione ritmica più marcata rispetto alla norma dell’intero lavoro.
Fin qui i motivi per gioire. Il resto, purtroppo, funziona solo a tratti e si va da cose più che buone (“California”, costruita nel complesso benissimo ma che perde un po’ nel ritornello; “Secrets From a Girl”, che vanta uno dei peggiori utilizzi di sempre di un featuring prestigioso, in questo caso Robyn) ad altre un po’ più interlocutorie (“The Man with the Axe” ha buone idee ma risulta troppo dispersiva, “Big Star” e “Leaders of a New Regime” francamente le ho trovate inutili).
Discorso a parte, forse, per la conclusiva “Oceanic Feeling”, brano elaborato e a tratti complesso, che vede il contributo del connazionale Marlon Williams e che è forse l’episodio dove Antonoff porta alle estreme conseguenze questa leggerezza eterea (by the way, Lorde ha pure detto che questo è il suo “Weed Album”) che rappresenta la caratteristica principale del nuovo lavoro. È un bel pezzo ma a tratti fin troppo trascinato, l’impressione è che serva tempo per assimilarlo meglio.
Appare a questo punto ironico che, se si vanno ad ascoltare le due tracce bonus destinate a chi abbia comprato la confezione (ma tranquilli, qualche santo le ha già caricate su YouTube) si scopra che una di queste, “Hold No Grudge” è probabilmente una delle migliori in assoluto, meritevole senza dubbio di entrare nella lista delle dodici destinata alla tracklist regolare. Se ne sono accorti anche i fan, che infatti nei commenti in coda al video bestemmiano allegramente accusando la loro beniamina di averli presi in giro. Io personalmente ho un’altra teoria: è un pezzo bellissimo, è vero, ma se avrete voglia di sentirla, vi accorgerete subito che, per intenzioni e arrangiamenti, è molto più vicina a “Melodrama” che al nuovo disco. Persino il testo, sorta di lettera nostalgica ad un ex che speriamo non sia sempre il solito di cui si è già parlato, contiene una certa dose di ingenuità che di primo acchito assoceremmo ad una versione più giovane dell’autrice in questione.
Avrei voluto essere breve e invece come al solito ho scritto un papiro. Perdonatemi e grazie per essere arrivati in fondo (magari qualcuno l’ha fatto). Il succo, comunque, è che “Solar Power” mi piace meno degli altri due ma sono molto contento che sia uscito così: meglio provare nuove strade e rischiare sull’esito, piuttosto che replicare una formula che non è neppure detto che funzioni all’infinito.