Se chiedete ad un fan dei Blind Guardian a caso quale sia il più bel disco della band tedesca, otterrete solo due tipi di risposte: c’è chi dirà Imaginations from the Other Side, il capolavoro del 1995 che ha portato ai limiti estremi il già complesso Power Metal espresso dal gruppo, dopo il quale sarebbe subentrata una cronica tendenza ai barocchismi e alle stratificazioni orchestrali; una buona metà sosterrà invece la causa del successivo Nightfall in Middle Earth, l’elaboratissimo, epico e teatrale concept album del 1998 sul Sillmarillion di Tolkien, che rappresenta forse il punto più alto mai raggiunto dal connubio musica Metal/letteratura Fantasy, portando il quartetto di Krefeld nelle preferenze di uno stuolo di nerd appassionati di giochi di ruolo, che mai nella loro vita si erano avvicinati a questo tipo di proposta musicale.
Sia come sia, è opinione pressoché unanime che, da lì in avanti, i Blind Guardian avrebbero iniziato a peccare di presunzione, inanellando una serie di lavori eccessivamente prolissi, col conseguente progressivo allontanamento da quel Metal di fattura teutonica che aveva fatto guadagnare loro l’apprezzamento dei fan.
Il sottoscritto, probabilmente l’unico sulla faccia della terra (giuro che negli anni non ho mai trovato nessuno che mi desse ragione) considera A Night at the Opera, uscito nel 2001, l’apice creativo del gruppo, e proprio per il motivo per cui viene detestato dalla maggioranza: il suo essere riuscito a superare brillantemente gli stilemi consolidati del Metal, per approdare su territori che spaziavano dalla musica sinfonica al Musical, seguendo (e di fatto perfezionando) quel personalissimo cammino che solo gli americani Savatage erano stati in grado di realizzare con un certo successo.
Mi riallineo poi alla massa, nell’affermare che i dischi successivi (peraltro sempre più dilatati nel tempo, vista anche la strabordante quantità di idee e di stratificazioni sonore messe in campo), seppur mai davvero deludenti, risultavano meno a fuoco e per certi versi mancanti di quelle brillanti idee melodiche che li avevano fatti arrivare nell’Olimpo del Metal mondiale. E se l’ultimo The God Machine ha visto un ritorno alle sonorità più concise e potenti degli esordi che ha avuto un po’ il sentore di un ripiegamento forzato (buon disco, nonostante tutto), è anche vero che, a distanza di quasi quarant’anni dall’esordio, pare abbastanza evidente che Hansi Kursch e compagni siano entrati in quella fase manieristica e superflua che caratterizza la quasi totalità delle band così longeve.
E Somewhere Far Beyond dove andrebbe collocato, in tutta questa disamina? Il quarto lavoro dei nostri, uscito nel 1992, il primo per la Virgin Records dopo il fallimento dell’etichetta indipendente No Remorse per cui avevano inciso sin dagli inizi, è uno di quei titoli della discografia dei Guardian che risultano totalmente inattaccabili (la stessa sorte la condividono solo il precedente, seppur ancora acerbo, Tales from the Twilight World, e il già citato Imaginations), compendio assoluto Metal made in Germany, aggiornamento ed insieme svecchiamento del sound più orecchiabile e zuccheroso dei connazionali Helloween, che aveva spopolato nel decennio precedente, ma che all’inizio dei Novanta erano in piena crisi, tra dischi poco decifrabili ed importanti cambi di formazione.
Somewhere Far Beyond è tuttora una pietra miliare del Power Metal, da inserire nella top ten di qualunque classifica ad esso dedicata, tra i punti di riferimento obbligati per qualunque giovane (ed in questo ambito ne esistono ancora) che volesse cominciare ad esplorare questo particolare universo.
È un disco che sta esattamente nel mezzo tra Tales ed Imaginations: più elaborato e ricco di idee rispetto al primo, ma ancora ben ancorato all’identità del genere, senza quei barocchismi e quelle sperimentazioni che avrebbero invece dominato (seppure ancora tenute attentamente sotto controllo) nel secondo.
Se siamo qui a parlarne adesso è perché i Blind Guardian ne hanno appena fatta uscire una versione Revisited, riregistrata da cima a fondo (ad eccezione delle backing vocals e delle parti di cornamusa sulla title track, che sono ancora quelle di trent’anni fa).
Le origini di tale operazione sono più pratiche di quel che si sarebbe portati a pensare: nel 2020 la band stava già pianificando un tour celebrativo dell’album per il suo trentesimo anniversario, ma il Covid ha reso incerta ogni previsione per il futuro; di conseguenza, i quattro hanno deciso di registrare in studio il disco, con l’idea di avere comunque un contenuto bonus da pubblicare, nel caso non si fosse riusciti a tenere i concerti. È andata a finire che il tour c’è stato (in Italia sono passati al Rock the Castle di Villafranca di Verona, ed essermeli persi costituirà sempre uno dei miei rimpianti musicali) ma questa versione rivisitata è uscita lo stesso, ad affiancare quella live, registrata in Germania, al Rock Hard Festival del giugno 2022 e all’Hellfest di Clisson, in Francia, una ventina di giorni dopo.
E arriviamo dunque alla domanda cruciale: vale la pena spendere soldi per un’uscita del genere? Ha senso, come si dice spesso, voler replicare con nuovi strumenti ciò che già in passato funzionava benissimo? La risposta, dal mio punto di vista, è categorica: no.
L’originale, con tutti i limiti di una band giovane, ancora piuttosto inesperta, che in molte scelte si era fatta guidare dal navigato produttore Kalle Trapp (con loro sin dal primo disco), suona ancora oggi potente ed attuale. Questa nuova versione, che vede in cabina di regia un altro gigante come Charlie Bauerfeind, ha paradossalmente meno sovraincisioni, poiché rispecchia maggiormente il modo in cui i brani sono stati eseguiti dal vivo nel corso degli anni. Per il resto, al netto di una produzione e di un suono più nitidi e aggiornati all’epoca, non c’è nessuna differenza: gli arrangiamenti, le strutture, le linee vocali, tutto è rimasto assolutamente immutato. Semmai, il vero motivo di interesse, può risiedere nella presenza del batterista Frederik Ehmke, che dal 2006 ha preso il posto di Tomen Stauch, nonché dal bassista Johan Van Stratum, visto che sono anni che Hansi Kursch non suona più il basso neanche in studio.
Vale comunque la pena, nonostante sia totalmente superfluo, ripercorrere il disco in questa moderna versione: è un’occasione per rivivere l’esperienza di una tracklist inattaccabile, già ricca di quelle suggestioni letterarie e cinematografiche che sarebbero state in futuro trattate con maggiore accuratezza e profondità, ma che già qui emergono in tutto il loro fascino, unificate da una “cornice” che è poi quella ritratta nella splendida copertina di Andreas Marschall (in quegli anni nome di riferimento dell’illustrazione Fantasy), con quei misteriosi bardi che sono in grado di viaggiare nel tempo e nello spazio, e dunque di raccontare storie tratte dalle fonti più disparate.
La bordata iniziale di “Time What is Time” (che nei suoi numerosi cambi di tempo e d’intenzione fotografa appieno l’upgrade nel songwriting del gruppo tedesco) è dunque ispirata a Blade Runner, la successiva “Journey Through the Dark”, più diretta e in qualche modo figlia della produzione precedente, è invece un racconto originale di Hansi Kursch, ispirato alla vicenda dei bardi di cui sopra. “Black Chamber” è un piacevole intermezzo piano e voce, una ballata da un minuto che rimanda alla componente più onirica e straniante della serie tv Twin Peaks. “Theatre of Pain”, primo brano della loro discografia a contenere una buona dose di parti orchestrali, nonché un certo feeling operistico che avrebbe caratterizzato i successivi lavori, racconta un’altra storia originale, dove uno dei bardi si trova a cantare di un pianeta che vive le sue ultime ore prima di essere distrutto.
“The Quest for Tanelorn”, oscura, epica e per certi versi magniloquente, è un’incursione nella celebre saga heroic fantasy di Elric di Melnibonè ideata da Michael Moorcock. “Ashes to Ashes” è indubbiamente l’episodio più potente del disco, quasi un ritorno a quello Speed Metal in stile Accept che aveva contraddistinto i primi due lavori. È un brano per certi versi unico all’interno del loro repertorio, perché prende le mosse da una vicenda personale, vale a dire la malattia che il padre di Hansi Kursch stava attraversando e che lo avrebbe portato alla morte pochi mesi dopo. In quel periodo il cantante si era trasferito a casa dei genitori proprio per dare una mano nell’assistenza, e fu proprio lì, in quella che era stata la sua vecchia cameretta, che venne concepito quello che è ancora il brano più celebre del gruppo: “The Bard’s Song – In the Forest” è una ballata interamente acustica, per sola voce e chitarra, che costituisce la prima parte di un dittico ispirato a Lo Hobbit di Tolkien (la omonima seconda sezione è a mio parere uno dei loro pezzi più belli ma dopo il tour del disco non è quasi mai stata eseguita) e che è divenuta da subito un momento irrinunciabile delle esibizioni dal vivo, dove viene totalmente lasciata al singalong del pubblico.
La title track, in chiusura, ha rappresentato una delle prime ed efficaci contaminazioni con influenze esterne al Metal (le cornamuse di cui abbiamo già detto, di cui sono state lasciate le parti originali) ed è una traccia mediamente lunga (quasi otto minuti) e piena di momenti differenti; anche qui, un’importante anticipazione di cose che sarebbero state sviluppate in seguito con maggiore perizia.
Se state cercando un reale motivo per possedere questa uscita, però, vi conviene buttarvi sull’edizione limitata, che contiene anche il Bluray con le esecuzioni del disco al Rock Hard Festival e all’Hellfest. Non ci sono i concerti integrali, purtroppo (il senso dell’operazione era un altro) ma vedere tutte le canzoni di Somewhere Far Beyond una dietro l’altra, compresi titoli quasi mai eseguiti quali “Theatre of Pain” e “The Bard’s Song – The Hobbit” giustifica senza dubbio l’acquisto. Senza dubbio meglio la prestazione dell’Hellfest, sia come regia sia come prova complessiva da parte del gruppo; che comunque, al netto di un Hansi Kursch sempre in difficoltà e pessimo frontman (se non fosse così bravo a livello compositivo, ci sarebbe da augurare loro di prendersi un cantante vero) dal vivo è sempre stata una macchina da guerra.
In attesa del prossimo disco, un’operazione per soli fan e, alla peggio, per neofiti, che comunque è stata confezionata con tutti i crismi e non è certo una mera occasione per spillare soldi.