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REVIEWSLE RECENSIONI
20/01/2018
Shame
Songs Of Praise
"I'd rather be fucked than sad”, canta Charlie Steen degli Shame. Giovanissimi ma tutt’altro che superficiali, la band londinese pubblica un primo straordinario disco che trasuda rabbia in salsa post-punk messa in musica con un entusiasmo senza confronti.

Cosa daremmo, qui in Italia, per avere una lingua così sfacciata da poter metter su una band e chiamarla “Vergogna”. E cosa pagherebbe un qualunque gruppo o artista italiano per risultare sufficientemente disinvolto da poter dire, in una canzone, che non gliene frega un cazzo senza risultare patetico. Sarà che gli inglesi rendono tutto più semplice e, con quell’inconfondibile modo di fare, a noi sembra proprio che le parole e il rock gli escano simultaneamente dallo stesso punto del cuore.

L’impressione che danno gli Shame è proprio quella di essere un formazione straordinariamente genuina e fresca, fattori che non è facile identificare dalle parti del post-punk. Intanto perché il genere torna a galla come veicolo espressivo delle giovani generazioni ormai a fasi alterne da quarant’anni e, pur essendo tutt’altro che logoro, finire nel dimenticatoio come una delle ennemila band derivative del sound di fine 70/primi 80 non è così difficile. E poi il post-punk è uno stile tutt’altro che solare e le sonorità cupe e ruvide dei suoi artefici non mettono certo a proprio agio l’ascoltatore medio di musica alternativa, noto per ricercare ben altro che il benessere interiore.

Invece “Songs of praise” lascia incredibilmente sorpresi, da questo punto di vista. Riesce a essere immediato senza cadere nelle banalità da classifica, e il paradosso è che, dentro, è intriso di rabbia, frustrazione post-adolescenziale, immagini ripugnanti e desiderio di riscatto.

La forza degli Shame è proprio quella di aver trovato una formula compositiva che travolge senza mezzi termini e il merito è anche di Charlie Steen e del suo modo di variare il modo di cantare. Se vi piacciono i paragoni, è facile che  ogni pezzo ve ne susciti diversi: Ian Brown, Johnny Rotten, Ian Dury, Jaz Coleman, Shane MacGowan. La sua peculiarità è quella di passare dall’urlo punk al parlato baritonale alla fluida melodia britpop con la massima facilità, un aspetto che contribuisce alla varietà della tracklist e alla resa dell’album in sé.

Gli Shame vengono da South London, hanno poco più di vent’anni, si conoscono sin dai tempi della scuola e si sono fatti le ossa in una sorta di centro sociale di Brixton. Suonano insieme dal 2014 e “Songs of praise” raccoglie tutti i brani pubblicati da allora, una caratteristica che si percepisce come in ogni altro album di esordio in cui si concentra tutta la vita precedente e l’entusiasmo che ha portato i musicisti sino a lì. Stanno ricevendo consensi dalla stampa specializzata e sembrano destinati a un futuro piuttosto radioso, malgrado il loro approccio e i loro contenuti siano agli antipodi dallo star system.

“Songs of praise” sembra infatti la colonna sonora di una società fatta di ragazzi alle soglie del baratro a causa della loro difficoltà di farsi ascoltare dalla politica degli adulti, più che l’ennesima annoiata posa della generazione-boh. I brani più tesi e più violenti risultano quelli più efficaci: “Dust on trial”, “Donk” e l’inquietante “Gold hole” (che racconta di un vecchio che rivolge attenzioni non richieste a una ragazzina) richiamano a tratti i Killing Joke di “Fire Dances”. Le tiratissime “Concrete” e “Lampoon” ci riportano più indietro, agli albori della new wave con i Wire e i The Sound, mentre con “The Lick”, “Tasteless”, “Friction” e “Angie” siamo nelle vicinanze del britpop, almeno quello più graffiante degli Stone Roses.

Su tutte, però, “One Rizla” - traccia numero 3 e singolo uscito a novembre ad anticipare l’album - merita una menzione a sé. “One Rizla” è una di quelle canzoni che vengono una volta nella vita, perfette perché sono la sintesi di un progetto, incarnano tutta l’attitudine della band e sfogano l’esplosività di chi l’ha scritta in una forma ascoltabilissima. E poi il testo, che probabilmente racchiude il manifesto d’intenti degli Shame già nel primo verso, quando Steen dice di fottersene se qualcuno odia quel che hanno da dire. E come dargli torto: alla fine, sono loro ad avere vent’anni.