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REVIEWSLE RECENSIONI
12/04/2023
U2
Songs Of Surrender
“Songs Of Surrender” è la resa degli U2. Il gruppo si arrende ai suoi tanti passati in un pellegrinaggio a tappe, realizzando un trattato sull’idea che la band ha della canzone in quanto opera d’arte.

Gli U2 hanno sempre spaccato il cervello in due con la loro ossessione per la geografia. Penso ad esempio a quel momento finale di “Rattle and Hum” in cui, dopo un disco americanissimo, spunta una coda orchestrale lunga due minuti di stampo completamente europeo, quasi ad introdurre quello che sarebbe stato il futuro del gruppo di lì a poco. O ancora penso a quando nel finale di “Zooropa” avviene l’esatto contrario e, a chiudere il disco più austeramente e seccamente europeo della loro storia, il microfono di “The Wanderer” viene lasciato niente meno che a Johnny Cash.

Con Songs Of Surrender il gruppo fa la stessa cosa, ma questa volta lo fa con il tempo. Era già tutto lì, nero su bianco fin dal primo singolo, quella “Pride” molto maltrattata dalla cloaca dei social, che si sviluppava in un vestito acustico del tutto nuovo fino al geniale campionamento finale della voce originale di Bono del 1984.

Molte perplessità si sono accumulate in seguito ad altre novità. Per esempio, dall’annuncio delle date a Las Vegas di fine anno per omaggiare Achtung Baby con la grande assenza (malissimo giustificata, ufficialmente per ragioni di salute) di Larry Mullen, per la prima volta in tutta la storia del gruppo. Qualcosa certamente non va in casa U2, ma non ci è dato sapere esattamente di cosa si tratti.

Nel mentre è uscito questo album, criticatissimo sulla fiducia dall’uomo della strada per mesi e mesi. Perché di questi tempi se non conosci una cosa, nel dubbio, parlane male.

 

Alla fine cos’è Songs Of Surrender, creato sulla scia dell’autobiografia di Bono uscita lo scorso anno? È un’opera corposa e insidiosa: quaranta canzoni totalmente rilette in abiti acustici, nuovi arrangiamenti e, fatto ben più eclatante per molti (ma nulla di nuovo per i conoscitori degli U2), una parziale riscrittura di diversi passaggi di testi, anche e soprattutto tra i brani super classici.

Come hanno già detto in molti, il capitano di questa “nave di resa” è, a tutti gli effetti, The Edge. Dopo essersi eclissato vagamente in sordina in entrambi gli ultimi due album di inediti, è lui a guidare il timone con coraggio e con una rinnovata voglia di musica e di arte che pareva mancargli da diversi anni. Lo fa con le sue chitarre acustiche (che mantengono il tipico suono alla Edge nonostante la presenza quasi nulla dei delay marchi di fabbrica) ma soprattutto con il pianoforte, che non ha mai suonato così bene e non gestiva in modo così iconico forse addirittura dai tempi di October (1981). Ma non solo di strumenti si occupa Edge: oltre a firmare gran parte delle produzioni e degli arrangiamenti (con il supporto di Bob Ezrin e di Duncan Stewart) in quattro brani la voce solista è la sua; i suoi cori sono in generale presentissimi in quasi tutti gli altri pezzi e spesso il frontman gli lascia intere strofe o ritornelli. Insomma, è evidente che di fare questa cosa The Edge non vedeva proprio l’ora.

Poi c’è ovviamente Bono, che fa un lavoro sulla sua voce incentrato completamente sulla performance. Il manifesto del disco è svelare, dichiarare, mostrare, senza paura di fissare per sempre su supporto difetti, sbavature e perché no stonature: ecco che non si nasconde più niente, la maggior parte delle linee vocali sono palesemente take uniche in cui non viene corretta o sostituita nemmeno un’imperfezione. È la voce di Bono artista e uomo così com’è, come se il patto con l’ascoltatore risieda proprio nell’onestà assoluta. Proprio in virtù di questo patto i difetti del disco sono anche i suoi pregi. Ogni elemento degli arrangiamenti pare voler cogliere l’estemporaneità e l’irripetibilità del momento in cui è stato creato.

 

Se la band rivelasse ora di colpo che il producer dell’album è in verità Brian Eno e non The Edge, non farebbe una piega: in tutto il lavoro si respira la lezione dell’antico mentore, citato palesemente nell’ambient di “Where The Streets Have No Name” (e ospite come corista, riconoscibilissimo in almeno un episodio). E si respira anche un’altra lezione, quella di sua maestà Bob Dylan.

Sì perché Songs Of Surrender è un trattato sull’idea che la band ha della canzone in quanto opera d’arte. L’opera che più di tutte ha trainato il mondo dal Novecento fino all’odierno Duemila inoltrato. Il gruppo cerca di comunicare un concetto ambizioso: le canzoni sono per tutti, in tutte le epoche. Vivono, si spostano, crescono, respirano e parlano a tutti in modo diverso. Quando gli U2 frequentarono un po’ Dylan nel 1987, si riporta che Edge gli disse in un’occasione: «La gente canterà le tue canzoni anche tra mille anni». La risposta fu: «Ah canteranno anche le vostre di canzoni, solo che nessuno saprà suonarle». La cripticità della risposta di Dylan era ben indirizzata. Nella tradizione popolare orale, che per Dylan è sempre stato il cuore di tutto, gli artifici di un’ambientazione sonora non possono sconfiggere l’eternità di una singola melodia. Tutti sappiamo cantare in coro il ritornello di “With Or Without You”, ma solo una piccolissima parte di noi saprebbe spiegare per quale ragione la sua parte di chitarra non può fare a meno del delay settato sull’ottava puntata. Questo è il genere di informazioni che potrebbe perdersi un domani come lacrime nella pioggia.

 

Dopo aver superato tutti e quattro i sessant’anni e dopo averne passati ben quarantasette insieme, gli U2 decidono di fare loro la suggestione di Dylan e di strappare dalle canzoni i loro arrangiamenti, per scioglierle dalle catene del tempo che le imprigionavano e disperderle nel mondo in un atto meravigliosamente anarchico. Talmente anarchico che il grosso dei fan ha urlato subito all’intoccabilità di questa o quella canzone. Conoscendo gli U2, più percepivano il senso di intoccabilità suscitato dai classici nei fan, più godevano nello smontare e rimontare quelle stesse canzoni, nel cambiarne il registro, il senso e le parole.

Visto il contesto avrebbe in realtà più senso parlare dei soli Bono e The Edge. Adam Clayton e Larry Mullen in effetti appaiono abbastanza poco e, a giudicare dalle interviste, quest’ultimo nemmeno avrebbe partecipato direttamente a nessuna session, fornendo materiale a distanza quando necessario. Tuttavia, quando presenti, basso e batteria mantengono i loro stili inconfondibili.

 

Nell’anarchia controllata del progetto ci sono picchi e cali, ma complessivamente è un viaggio splendido e quasi ogni pezzo meriterebbe un dettagliato approfondimento a sé. L’ascolto tutto di fila assume già dalle prime canzoni la forma di un pellegrinaggio mistico, che richiede una sorta di sospensione di incredulità rispetto alla relazione che ognuno può avere con l’opera omnia degli U2.

Curiosamente, tra i momenti migliori delle quaranta tappe (aperte da “One”, chiuse da “40”, colpo da maestri) ci sono i pezzi degli ultimi vent’anni, quelli della conferma di classicizzazione del sound, una fase da molti considerata quasi parodistica e in realtà meritevole di diventare oggetto di rivalutazione. Ecco che “Every Breaking Wave”, riproposta in versione piano e voce, riesce a smuovere fino alla commozione più di quanto riesca a fare la nuova “With Or Without You”. Largo anche a “Ordinary Love”, “Sometimes You Can't Make It On Your Own” e “Invisible”, messe una in fila all’altra per creare con “Dirty Day” una struggente lunga preghiera per il padre di Bono. Canzoni che si appropriano di radici dubliner-celtiche che gli U2 non erano mai stati a loro agio ad interpretare. Quando entrano mandolini, bouzouki, violini e cori da pub, qualche vibrazione nella stanza cambia e si aggiorna anche il rapporto dell’ascoltatore e con gli U2, con quello che oggi gli U2 rappresentano.

Con la bella “Electrical Storm” accade qualcosa di simile. La canzone, con quell’interpretazione così concentrata di Bono, si trasforma in qualcosa di sensazionale quando dal nulla la tonalità si alza di due toni e The Edge canta da solista tutto il resto del pezzo, uno stratagemma che non era mai stato presentato in nessun momento della loro storia. Anarchia controllata, dicevamo. E che dire delle atmosfere senza tempo che si posano su una “Peace On Earth” ancora cantata da Edge che rimanda ai folksinger degli anni Sessanta, o della fierezza di Bono nell’interpretare “Lights Of Home” con un pathos assoluto.

Perfino “The Miracle (of Joey Ramone)”, che nell’originale è una delle due o tre più brutte canzoni degli U2 di sempre, è riproposta in una veste interessante, che vanta una strana ambientazione acustica trip hop, nonostante sia danneggiata da un nuovo ritornello piuttosto incoerente.

 

E poi ci sono i brani del primo ventennio storico, alcuni dei quali riproposti in vere e proprie gemme. “The Fly” avvolta in un blues urban super cool che fa pensare ai Gorillaz, “Out Of Control” che omaggia la propria punkness anche solo arrangiata solo per chitarra acustica, “One” ammorbidita e portata all’estremo dell’intimità. Su tutte si staglia “Stories For Boys” (cantata da chi? Ma sì, The Edge), con le note di piano glaciali e maestose provenienti esattamente dagli anni di October in uno strano cortocircuito temporale. Interessantissimo è poi il dittico “If God Will Send His Angels” (un piano e voce straordinario che sembra cantato da Mick Jagger) e “Desire” (assurdamente surreale, con Edge in falsetto), che suona come un piccolo tributo a Prince.

 

Ci sono, certo, cose che non funzionano. Alcune canzoni risultano un po’ occasioni perse, come “Who's Gonna Ride Your Wild Horses”, che poteva dare di più, “Miracle Drug”, il grande "classico mancato” del 2004, o “All I Want Is You”, decorata con un vestito un filo troppo rassicurante.

L’unico episodio piuttosto imbarazzante del lotto è “Walk On”, riscritta con al centro la guerra in Ucraina, caratterizzata comunque da un lavoro di arrangiamento vocale bellissimo.

Non mancano poi momenti in cui la tendenza alla riscrittura si trasforma un po’ in un vizio, rischiando di infastidire un po’. Succede parzialmente in “Bad”, comunque strutturata da sempre come una tela bianca da riscrivere all’infinito, e soprattutto in “Until The End Of The World”, forse la canzone più perfetta, onirica, spettrale e circolare degli U2. Qui le modifiche armoniche del coro finale toccano davvero una terra sacra e un po’ arrivano ad urtare più che in altri grandi classici.

 

In generale però l’ascolto di questo disco è un dialogo con l’ascoltatore a tratti sorprendente. I dettagli sono continui rimandi alla storia del gruppo e all’approccio alla musica dei singoli membri. Le canzoni paiono lì per scambiarsi tra loro le epoche e assumere l’una le caratteristiche dell’altra in una morbida trasfigurazione, una danza tra stili.

La band ha già preannunciato che si è parallelamente messa al lavoro su nuova musica, eppure è così difficile credere che a questa raccolta di canzoni, che ha un suono retrospettivo così netto, possa davvero seguire un nuovo disco di inediti. 

Il finale con “40” è un colpo bassissimo in questo senso: impossibile non sentire tutt’intorno il tempo che si ferma mentre lo storico riff viene accarezzato sul pianoforte con in aggiunta quelle settime minori ad alimentare ulteriormente i dubbi esistenziali alla base di quella che è stata la canzone per eccellenza della band per tutti gli anni ottanta. «How long to sing this song?»: cosa diceva Dylan a The Edge nella conversazione di cui sopra?

 

Comunque vadano le cose, è la fine di un lungo ciclo per gli U2. Iniziato quando? Nella cucina di Larry nel 1976? Negli echi desertici di The Joshua Tree nel 1987? Con la roboante uscita di “Beautiful Day” all’inizio degli anni Duemila? Difficile dirlo. La stessa copertina sembra lanciare dei segnali in tal senso. La scelta di creare un collage con Adam, Larry ed Edge da una session del 1997 (da Pop, il disco che chiuse la fase più romanticamente ambiziosa della carriera) e Bono da qualche parte negli anni Ottanta è molto disorientante e volutamente assurda, ma pare rimandare al concetto della fine dei cicli. È come se con quella immagine gli U2 ci dicessero che, così come Pop chiuse la loro età dell’oro iniziata negli anni Ottanta, questo Songs Of Surrender va a chiudere quella della ricerca del consenso di massa e della voluta e cercata stereotipizzazione del loro suono e della loro immagine. Come se, insomma, dopo questi ultimi vent’anni ambiziosi e controversi, il gruppo deponesse le armi: Surrender, in una parola.

Più ci si riflette, più si moltiplicano le cose da dire attorno a questo lavoro stratificato, complesso, affascinante, che ad ogni ascolto regala spunti di riflessione, analisi e connessioni con i tanti passati di un gruppo multiforme e pieno zeppo di umanità. Forse per affrontare a dovere tutti i solchi scavati nel suono fragile e confidenziale di questo album servirebbero non meno di quarantasette anni.