Mentre si avvicinano al loro quarto decennio di attività, i Cowboy Junkies non smettono di interpretare le canzoni di altri artisti, una costante della loro carriera, che ne ha definito a lungo il loro repertorio, sin dagli esordi nel 1986. In Songs of the Recollection, non c’è materiale originale, ma solo cover, per una scaletta che permette di ascoltare le loro interpretazioni uniche di brani di Neil Young, Gordon Lightfoot, Bob Dylan, The Cure, David Bowie, Gram Parsons, The Rolling Stones e Vic Chestnutt. Non siamo di fronte, però, a un disco di riletture prevedibili, di copia incolla fini a se stessi, perché Michael Timmins (chitarra), Margo Timmins (voce), Peter Timmins (batteria) e l'amico di sempre, Alan Anton (basso), aggiungo sensibilità e coraggio, e mentre ascolti queste canzoni, trovi conferma su quelle che sono le accattivanti qualità che, in trentasei anni, hanno trasformato la band canadese in un amatissimo oggetto di culto.
Come valore aggiunto, poi, la voce di Margo Timmins, nel corso del tempo, si è lentamente trasformata, ed oggi è diventata più sicura e drammatica. La senti gonfiarsi e librarsi nell'apertura di "Five Years" di David Bowie, la traccia iniziale di Ziggy Stardust and the Spiders from Mars, una canzone cupa e preveggente, che incarna perfettamente l’attuale crisi di valori, che si tratti del cambiamento climatico, della pandemia, o dei disastri della politica, e viene da chiedersi come la timida cantante, che ha incantato così tante persone col suo timbro soave, abbia acquisito negli anni quelle sfumature calde, di passione e di rabbia.
Un inizio coi fiocchi, seguito da "Ooh, Las Vegas" di Gram Parsons, che i Cowboy Junkies conducono in un territorio irriconoscibile. Mentre la versione originale possedeva un tiro spensierato che mascherava l'oscurità dei testi, gli effetti per chitarra riverberanti e intrisi di feedback di Michael e la sua voce intrecciata a quella della sorella, illividiscono il brano di foschia psichedelica.
"No Expectations", dal songbook degli Stones ha uno sviluppo fedele alla matrice, e ci si perde nell’atmosfera sognante, tra le note di chitarra slide di Michael e la voce morbida e sussurrata di Margo.
Da canadesi al canadese, era quasi inevitabile un tributo al grande Neil Young, qui evocato con due canzoni, inserite in scaletta, una vicina all’altra. I fratelli Timmins insufflano di oscurità ed elettricità "Don't Let It Bring You Down", portandola in territori quasi epici, con accordi graffianti su uno sfondo cacofonico, e la giustappongono a una versione straordinariamente ariosa e dolce di "Love In Mind", che rivela tutte le diverse sfumature della voce di di Margo.
Restano in Canada, i CJ, omaggiando con una versione vibrante di elettricità "The Way I Feel" anche il connazionale Gordon Lightfoot, e poi svoltano in modalità rilassata per affrontare "I've Made Up My Mind (To Give Myself to You)" di Dylan (dal suo Rough and Rowdy Ways del 2020), in cui il testo poetico libra in un respiro emozionale da grandi spazi e languori morbidissimi.
Come i fan della band sanno bene, i CJ avevano stretto un forte legame di amicizia con il defunto (e purtroppo mai adeguatamente apprezzato) Vic Chestnutt, al punto da registrare un intero album di sue canzoni (Demons) come omaggio postumo al suo straordinario talento. Qui, riprendono Marathon, in una versione in bilico fra oscurità e narcolessia, la cui atmosfera spettrale pervade anche l’inusuale rilettura di Seventeen Seconds dei Cure, brano lontanissimo dalla cifra estetica del gruppo canadese, eppure meravigliosamente reinterpretato attraverso una visione desolatamente inquietante.
Se non si hanno idee e classe da vendere, rilasciare un intero disco di cover è un azzardo, il rischio del copia incolla, della perdita di slancio e del mestiere che prevale su tutto, è concreto. I Cowboy Junlkies, invece, portano a casa una vittoria squillante, dando una lezione di stile, ma anche di passione, a tutti coloro che vogliono cimentarsi nella nobile, ma complicatissima, arte di dare nuova vita alle composizioni altrui.