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REVIEWSLE RECENSIONI
23/06/2023
King Krule
Space Heavy
Il quarto disco di King Krule, "Space Heavy", è quello della maturità, con nuove canzoni che oscillano tra il cantautorato e il Jazz e una vena crooning decisamente più presente che negli episodi precedenti. Molto talento, ma anche molto mestiere e una certa ripetitività.

Per qualunque artista, anche per i più dirompenti e innovativi, arriva sempre il momento in cui bisogna convivere con la fine dell’hype e con il fatto che la propria esistenza e la propria carriera venga data per scontata. Archy Marshall ha sconvolto il mondo della musica prima con 6 Feet Beneath the Moon e soprattutto con The OOZ, tra i dischi più dirompenti del 2017, a suo agio nel mischiare generi e attitudini e metterle al servizio di un insieme coerente e allo stesso tempo visionario. E successivamente ci ha pensato il live You Heat Me Up, You Cool Me Down, a cristallizzare la proposta di uno che non si capisce che musica suoni ma che, allo stesso tempo, sembrava possedere quella immediatezza necessaria per arrivare a chiunque.

 

Cosa è rimasto di King Krule, a dieci anni esatti dall’esordio? Non molto, a dire la verità. Perché il bello (o il brutto, fate voi) delle carriere, è che sono costrette a sopravvivere alle pietre miliari e a farsi inscrivere all’interno di un contesto più ampio.

E Marshall, negli ultimi anni, ha fatto molto per “normalizzarsi”, se così si può dire. Si è sposato, ha fatto un figlio, è stato alienato dal Covid esattamente come ogni essere umano su questo pianeta. Il risultato è che il concetto di “Space between” è divenuto cruciale per dare forma alle canzoni di Space Heavy, il disco che avrebbe dovuto far dimenticare Man Alive!, vale a dire il lavoro con cui ci siamo accorti che il ragazzo di Londra abitava anche lui sulla terra.

Arrivato alla soglia dei 30 anni con una vita famigliare che, appunto, lo costringe a non fare più tardi la sera, riflettere su quella distanza tra il palco e la vita, tra la creazione artistica e la quotidianità più prosaica, pare essere divenuto imperativo.

 

Scritto tra Londra e Liverpool, le due città in cui ha vissuto tra 2020 e 2022, prodotto dal collaboratore di sempre Dilip Harris e suonato assieme ai soliti musicisti che lo seguono dal vivo (Ignacio Salvatores al sassofono, George Bass alla batteria, James Wilson al basso, Jack Towell alla chitarra) il quarto disco di King Krule si può tranquillamente configurare come “quello della maturità”.

Nello spaesamento del Covid, nella necessità di trovare una dimensione stabile per la propria esistenza, queste nuove canzoni oscillano tra il cantautorato e il Jazz, con pochissimi scostamenti ritmici (“Pink Shell” e “Hamburgerphobia” sono gli unici episodi in cui c’è un po’ più di movimento e dove i sovraccarichi di elettricità fanno in qualche modo pensare ai primi lavori) e una vena crooning decisamente più presente, lampante già dall’iniziale “Flimsier” (interessante questo insistere sul concetto di fluidità, visto che a metà scaletta arriva anche una “Flimsy”; come se la sospensione spaziale di cui sopra andasse a ripercuotere  sulla forma delle canzoni) e continuata nelle chitarre cullanti e nei fiati delicati del singolo “Seaforth”.

 

C’è una maggiore pacificazione, un desiderio di essere confortati, di sapere che prima o poi quello spazio verrà colmato. La conseguenza è che svanisce l’effetto sorpresa, si smette di essere all’erta ogni due secondi, ma allo stesso tempo, pur dentro un orizzonte per certi versi largamente prevedibile, la classe non viene meno: “Tortoise of Independency”, magnificamente giocata sulle acustiche e sui fiati, a sfociare in “Empty Stomach Cadet”, vestito minimale col sax di Salvatores che come sempre fa il bello e il cattivo tempo (che sia lui una delle chiavi del successo di King Krule è ben evidente anche nella dimensione live); o ancora, in una “Seagirl” decisamente narcotica, impreziosita dal cameo di Raveena, la dimensione del mare che ritorna a fare da ulteriore elemento simbolico, la storia di due figure che si cercano, l’idea dell’annullamento a fare capolino dentro un tappeto sonoro etereo.

Bella anche “Our Vacuum”, anche questa con degli arrangiamenti ridotti al minimo, che esprime l’altra possibile faccia di questo disco, quella del malessere esistenziale (“So empty this space/It weighs heavy on my plate/And in between us in a grave/In a field far away”) e perfettamente efficace la title track, l’episodio che più di tutti rimette in gioco le influenze Jazz.

 

C’è sicuramente tanto talento ma anche tanto mestiere, qua e là affiora anche una certa ripetitività e un senso di déjà vu impossibile da cancellare. Nonostante tutto, Space Heavy è di gran lunga superiore al suo predecessore, se non altro perché tenta di sviluppare un discorso in parte diverso, di fare i conti con una fisiologica maturità.

Non è il disco con cui ricorderemo King Krule a fine carriera ma, se davvero ha intenzione di registrare dischi per i prossimi decenni, potrebbe essere l’indicazione giusta della via da seguire.