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REVIEWSLE RECENSIONI
02/01/2018
Solid Space
Space Museum
La malinconia che avviluppa l’album oggi si impregna di nostalgia per quel tempo lontano, per tutte le speranze e le promesse andate perdute nel corso degli anni, per un presente diventato eternità ed un futuro che non riusciamo più ad immaginare

“Everything dies baby that’s a fact
but maybe everything that dies someday comes back”
Bruce Springsteen

Da non credere.
Uno dei migliori lavori di minimal-wave degli anni 80, pubblicato nel 1982 solo in formato cassetta e perciò divenuta ben presto introvabile, è stata ristampato in vinile nonché in download su Spotify proprio in questo annus orribilis che è stato il 2017.
Chi segue il genere forse avrà già capito che sto parlando dei Solid Space e del loro Space Museum.

Il 1982.

Nel 1982 la musica popular (nel senso anglosassone, che comprende tutti i generi per l’appunto popolari, compreso il rock) arrivava dalla restaurazione del punk (intesa come ritorno al rock primigenio) ed era in procinto di compiere l’ultimo grande passo in avanti, tutta proiettata verso il futuro, in cerca di nuovi linguaggi e in attesa di adempiere al proprio compito storico, ovvero quello di essere da avanguardia e da stimolo per tutta la società. Strano vero parlare di viaggi interplanetari e di esplorazioni delle galassie (oggi tempo due secondi arriverebbe a redarguirti il solito cacacazzo con il ditino alzato: “eh ma quei soldi dateli a chi non ha da mangiare”) non lo era trentacinque anni fa, dove perlomeno avevamo il coraggio di immaginare un futuro, qualunque fosse stato.
Il futuro cantato dai Solid Space alias gli albionici Maf Vosburgh e Dan Goldstein,  si nutriva di malinconia e te lo esprimeva tramite synth, drum machine, chitarre e voci monocordi, quasi robotiche, sotto quel mood gelido ribolliva però tutta la passione e l’inconsapevolezza di star contribuendo alla nascita di un nuovo linguaggio musicale.
I tredici brani di Space Museum paradassolmante hanno mantenuto, 35 anni dopo, tutta la loro modernità (provate nel 2042 a prendere una qualsiasi canzone prodotta negli anni dieci e vedete se riuscite a capire in che anno sono uscite) sotto una cappa di synth si fanno largo delle melodie bizzarre condite di chitarra acustica, come possiamo ascoltare in “Darkness in My Soul”, chitarre ritmiche mutuate dal funk, che anticipano di trent’anni i Daft Punk, in “New Statue” e nella solare “Radio France”, la gelida e bellissima “Tenth Planet” ci riporta in riga per ricordarci il senso del viaggio verso mete irraggiungibili.
La malinconia che avviluppa l’album oggi si impregna di nostalgia per quel tempo lontano, per tutte le speranze e le promesse andate perdute nel corso degli anni, per un presente diventato eternità ed un futuro che non riusciamo più ad immaginare.