“La memoria poetica è ciò che rende l’uomo umano”
(Milan Kundera, L’insostenibile leggerezza dell’essere)
Come sosteneva Milan Kundera ne L’insostenibile leggerezza dell’essere, nel nostro cervello vi è una zona speciale definita “memoria poetica”, che registra tutto quello che ci affascina, ci commuove e rende più speciale il vivere di tutti i giorni. Una vita, quella di tutti i giorni, che è attraversata da una vera rivoluzione quando si trova il modo di essere radicati come un albero e al tempo stesso scorrere come un fiume in piena, avere in sé fondamenta solide e profonde ma possedere contemporaneamente la capacità di essere duttili e sapersi adattare alle situazioni (e alle complicazioni) che evolvono.
Sono queste le meraviglie che contraddistinguono il nuovo lavoro degli Auge, Spazi Vettoriali. Mentre il lavoro precedente, In Purgatorio (2022), esplorava le contraddizioni che rendono avvincente tutto ciò che è umano, in Spazi vettoriali è la multiforme varietà degli spazi entro i quali l’umano si muove a trovarsi sotto i riflettori, sotto la lente d’ingrandimento delle circostanze.
Icaro è la colonna portante dell’opera e le sue ali rappresentano il tramite tra la superficialità (con la quale molti decidono di trascorrere tutta la loro vita) e l’approfondimento dei lati sconosciuti degli avvenimenti di ognuno di noi. Chi vorrà porsi all’ascolto e intraprendere il viaggio attraverso l’ordito dei 10 vettori sonori, sonderà le molteplici dimensioni nelle quali si dipana il nostro auscultare l’esistenza e il suo eco. Icaro, in questo contesto musicale, si presenta a noi come un eroe coraggioso, che attraversa lo spazio e l’umana specie divenendo quasi una visione angelica.
Gli Auge vedono rispettivamente Mauro Purgatorio (detto dagli amici Il Purga) alla voce, penna, tastiere e synth, Sara Vettori al basso (impegnata a stregare tutti con la sua bravura), Matteo Montuschi alla chitarra e Riccardo Cardazzo alla batteria, e hanno il dono dell’autenticità, la capacità di far emergere dettagli che propagano la luce e le ombre della solitudine.
Le illusioni e la paura sono emozioni essenziali che si spezzano per poi ricomporsi nel finissimo pulviscolo di un avvenire sospeso che nel primo brano “Icaro”, si palesa senza riserve davanti a noi. Vi sono ricordi che non accendono i desideri, che spariscono dentro porte senza ritorno, ma con un cielo ancora da esplorare, mentre il vento caldo scioglie le nostre ali. “Tu che come me non segui linee temporali, spiega bene le tue ali, prima che il vento caldo possa raggiungerci”.
“Ero lì” è il manifesto contro la passività, il qualunquismo, l’assistere alle ingiustizie senza reagire perché “tanto non cambierà mai nulla”, che poi sfocia nella successiva “Firenze”, una sorprendente corsa contro il tempo che inesorabile incede, dove lampi di fuoco invadono la mente e il basso di Sara fà il resto, mentre tu “fai perdere il controllo di te, senza mai cercare il sublime”.
Poi arriva “Lei”, che scende nel proprio cuore, tra le piaghe delle sue incertezze, per comprenderne l’inesprimibile; passi interdetti tenteranno di attraversare la fiamma intermittente dei suoi occhi, tra “scorie di anni di vita perduta”. In “Maestrale” le onde delle reliquie del passato s’impossessano del suono del cuore, dove la pelle vorrebbe indossare un abito leggero mentre le nuvole scompigliano i pensieri più scuri e le onde gridano senza alcun timore: “it’s the secret I love”.
In “Gravità”, che è anche la gravità degli errori che non affrontiamo, una voce interiore ammaliante accentua la necessità di corpi vicini all’impazienza del cuore, ma “per quanto tu ci cerchi di innalzarti, lei ti schiaccia al suolo”.
L’album termina le sue esplorazioni tra “La teoria” (del caos), la riflessione su cosa significa essere un dio in “Ognissanti”, (l’invito a) “Perdersi” e “Universi”, e tutto infine conduce a una verità che Balzac conosceva bene: “Un sentimento non è forse il mondo in un pensiero?” (Honoré de Balzac, Papà Goriot).