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RE-LOUDDSTORIE DI ROCK
04/04/2022
Gábor Szabó
Spellbinder
L’odissea jazz di Gábor Szabó è fra le più sorprendenti che troviamo nella storia di questo genere musicale, da sempre resistente a una facilità di classificazione. Spellbinder, pubblicato nel 1966, ancora splende di luce propria, anzi il tempo e l’influenza esercitata su un ampio panorama di artisti gli hanno donato nuovi riflessi e brillantezza. Rianalizziamo, ma soprattutto riascoltiamo tale pregiata opera.

“La prima cosa in assoluto che mi viene in mente quando penso all’Ungheria è Gábor Szabó. Che spirito e passione gli bruciavano dentro! Solo dopo averlo conosciuto mi sono reso conto che esistessero così tante possibilità di suonare una chitarra”. (Carlos Santana)

Un solista formidabile. Sapeva quando emettere una nota e quando non doveva”. (Chico Hamilton)

 

 

Non togliete mai a un artista speranza, tenacia e ideali: non potrebbe più vivere su questa Terra e smetterebbe di creare. La storia di Gábor Szabó è una commovente narrazione di sacrifici, l’epopea di un uomo determinato, impetuoso, che non ha mai smesso di sognare e ha lasciato un segno indelebile nel mondo della musica jazz incrociandola e contaminandola con sonorità nuove, provenienti dal suo background culturale dalle mille sfaccettature.

Nato a Budapest nel 1936, fin da piccolo è attratto da ritmo e danza, ammaliato dai balli delle donne nomadi accampate nel campo di grano vicino alla casa dei nonni, ma è a tredici anni che avviene la folgorazione per la chitarra; galeotto è un film western di Roy Rogers e da lì si dipana un amore incontrastato per lo strumento che lo renderà celebre. La trasmissione Voice of America diventa la sua principale fonte di ispirazione, ascoltata di nascosto come alternativa alla propaganda diffusa dalla radio della capitale. Coltrane, Ellington ormai sono di casa e comincia a strimpellare a orecchio brani di Oscar Peterson e Gerry Mulligan sulla chitarrina ricevuta in regalo qualche Natale prima. Non si separa dall’amata sei corde nemmeno quando, poco più che ventenne, sorpassa fortunosamente il confine, dopo l’invasione sovietica. È un ragazzo ancora un tantino ingenuo, però già caparbio e cocciuto: nella sua testa si convince che, in caso di un alt imposto dalle truppe, avrebbe potuto portare pace suonando. Ovviamente non si rende conto del rischio corso data la forma dello strumento, che, nella penombra, può davvero assomigliare a quella di un’arma. Comunque, come si suol dire, la fortuna aiuta gli audaci e dall’Austria Szabó nei mesi successivi raggiunge gli Stati Uniti e per lui comincia una nuova era, irta di difficoltà determinate da un paese nuovo, sconosciuto non solo per la lingua, ma pure per tradizioni, usi e costumi, tuttavia anche effervescente e stimolante. Un’ancora di salvezza sono sia i genitori, anch’essi arrivati in California, a San Bernardino, che assecondano i suoi interessi, sia la voglia di imparare ed emergere da parte del giovane. Si trova un lavoro come bidello, mette da parte i risparmi necessari al fine di pagarsi gli studi per il Berklee College of Music di Boston e si trasferisce quindi nella East Coast. Le straordinarie doti da virtuoso e l’unicità con cui riesce a combinare vari stili all’interno del jazz non lo fanno passare inosservato e, nonostante alcuni momenti in cui la differenza di culture gli pone dubbi sulla vera integrazione nel tessuto musicale a stelle e strisce, riesce a spiccare il volo, esibendosi al festival di Newport con Luis Armstrong e, successivamente, sposatosi e tornato in California, collaborando con il talentuoso sassofonista Charles Lloyd e Chico Hamilton. Proprio l’esperienza con quest’ultimo farà da spartiacque tra la fase terminale di apprendimento e quella definitivamente professionale di Szabó, che lo spinge all’esordio - in realtà nello stesso periodo escono pure altre due pubblicazioni, Gypsy ’66 e Simpático, però in accoppiata con il famoso vibrafonista Gary McFarland - con il policromatico Spellbinder. Eccoci all’album che ancora oggi ispira e illumina una pletora di artisti e ha cambiato la vita di numerosi personaggi dell’epoca, da Carlos Santana a Lee Ritenour: uno straordinario ipnotico manifesto jazzistico intriso di musica gitana, latina, fusion e rock, centrifugata con un pizzico di pop.

 

“Posso essere definito un musicista di chiara estrazione jazz, che è l’idioma con cui comunico, ma non lo sono integralmente, diciamo che è la mia base. Mi trovo perfettamente a mio agio nell’interpretare canzoni francesi o indiane e sono felice di trasmettere le sensazioni e l’essenza delle mie origini. Adoravo ascoltare i gitani suonare, mi hanno influenzato parecchio”.

 

Ecco in sintesi, ciò che troviamo in questo lavoro spregiudicato, che attraversa una molteplicità di generi e inizia con l’ammaliante title track, cinque conturbanti minuti di ritmo sfrenato di cui i primi sessanta secondi completamente dedicati alle incendiarie percussioni dei briosi Willie Bobo e Victor Pantoja, accompagnati dal “Maestro delle pelli”, il già citato Hamilton. Il leggendario batterista, che nel suo excursus artistico è stato al fianco dei giganti, da Mingus, Hampton e Basie a Ellington e Billie Holiday, accetta con piacere di partecipare al disco del suo alunno ungherese e contribuisce con la propria saggezza e conoscenza a rendere impeccabili le registrazioni, offrendo consigli anche allo storico produttore Bob Thiele, al quale non par vero di annoverare nella band pure Ron Carter, uno dei più grandi bassisti del genere, e non solo per le oltre duemila incisioni che lo hanno reso recordman nel campo.

Incantatore, il titolo dell’opera e della prima traccia, è quanto mai azzeccato; il profumo di stregoneria emanato dal groove del pezzo prosegue nella seducente "Witchcraft", e la chitarra di Szabó è sempre dolcemente e docilmente in primo piano, insostituibile primadonna che reclama con umiltà il suo spazio e colpisce al cuore. Anche se durante l’intera carriera Gibson, Epiphone, Ovation e addirittura Fender sono annoverabili tra le sue utilizzate e gradite, le favorite rimangono le Martin, nei modelli acustici D-45 e D-285: per catturarne il suono elettrico vi monta un pickup magnetico collegato ad un amplificatore, riuscendo ad incorporare nel proprio fraseggio un uso virtuosistico del feedback. Geniali intuizioni per un mago della musica strumentale che prosegue nella tracklist con la rilettura della nostalgica "It Was a Very Good Year", nota in quel periodo grazie alla versione di Sinatra e nel capolavoro "Gypsy Queen", uno dei motivi che impressioneranno vivamente un giovane Carlos Santana. Questa composizione, dall’intrigante ritmica latina, verrà inserita dall’istrionico messicano nel pluripremiato Abraxas (1970) come coda a un altro pezzo storico che di nome fa "Black Magic Woman": un medley geniale, ancor oggi inossidabile cavallo di battaglia per le esibizioni dal vivo del gruppo.

"Bang Bang (My Baby Shot Me Down)", la hit di "Sonny & Cher", è invece la sorpresa della raccolta, unico brano cantato, in modo molto delicato e sentito. Gábor, con notevole modestia, ha sempre raccontato di essersi cimentato nell’interpretazione poiché non richiedeva una particolare estensione vocale: il risultato è gradevole, si percepisce il candore della voce e la raffinatezza della sei corde. Una voce che possiamo ascoltare anche in "Yearning", sublimazione della malinconia in musica, tiepido acquerello latino dove, sul finire, si ode l’autore mormorare la melodia ricamata con la chitarra, come ad esaltare la sua virtù. Nella poliedrica "Cheetah" non mancano invece i momenti rilassanti, di riflessione, a tratti con richiami orientaleggianti, a metà strada tra India e California, tematiche ripercorse nella stupefacente ripresa dello standard "My Foolish Heart", caratterizzato dalla forza dirompente del contrabbasso di Carter. La tecnica del musicista magiaro si impreziosisce di nuove sfumature, che svilupperà maggiormente in seguito, con un utilizzo delle corde a simulare il suono del sitar, a completamento di tutti gli esperimenti vincenti sinora ingegnati.

La conclusione è un autentico colpo di scena, con il rifacimento di due classici della tradizione francese uniti in un’unica traccia. "Autumn Leaves" è una di quelle canzoni eterne e qui ribolle di sentimento, facendoci ricordare, anche, che uno degli autori, Joseph Kosma, è per metà ungherese, mentre "Speak to Me of Love" rispecchia perfettamente la visione cosmopolita della musica insita nel chitarrista, abituato ad abbattere ogni confine.

Spellbinder rimane un disco di culto, che si ritaglia uno spazio nelle classifiche Billboard e instilla consapevolezza delle proprie attitudini a Szabó: la fine degli anni sessanta rappresenta il periodo di maggior fulgore e opere come Jazz Raga, Dreams e 1969 lo certificano, amplificando la devozione per alcune icone come Ravi Shankar e Django Reinhardt, all’insegna del trionfo delle contaminazioni per un crossover jazz d’alta classe. Il decennio successivo si fa più tormentato con uscite discografiche ed esibizioni live centellinate. Il mondo dello spettacolo gli ha alimentato tensioni e probabilmente non ha definitivamente chiuso i conti con il passato da emigrante; l’abuso di alcool ed eroina, strada imboccata per cercare di alleggerire questi disturbi, peggiorano la situazione. Gábor è un’anima fortemente traumatizzata che cerca di tenere insieme i pezzi frantumati del suo essere. Solo nel ’74 era brevemente tornato in Ungheria, la prima volta dal trasferimento negli States. A questa visita ne segue un’altra nel ’78, in cerca di tranquillità dopo il lancinante divorzio dalla moglie; nell’estate ’81, invece, vi si stabilisce per alcuni mesi, insieme alla nuova compagna, riallacciando i legami con le proprie radici. In terra magiara organizza alcuni concerti, cura la pubblicazione europea di Femme Fatale, interessante progetto dalle sfumature fusion in cui compare Chick Corea, concepito e registrato tempo prima a Los Angeles e ora finalmente realizzato. Purtroppo, proprio nel momento in cui brama di tornare in California e sogna di riprendersi in mano l’esistenza, avviene un brusco e drastico peggioramento delle sue condizioni di salute, in realtà già precarie in seguito ai trascorsi eccessi, e muore per una serie di complicazioni a reni e fegato nella capitale in cui era nato, in un freddo giorno di fine febbraio 1982.

Non aveva ancora compiuto quarantasei anni, ma il suo testamento musicale permane immenso e raggiunge soggetti veramente inaspettati. Provate a riascoltare la celebre "Save Room" di John Legend e poi virate sulla rilettura che Szabó fece di "Stormy", storica hit dei Classics IV: ebbene scoprirete, se non lo sapete già, che il pezzo è praticamente costruito utilizzando un sample di quella versione.