
A due anni da Il segreto, album-concept registrato in presa diretta, Venerus riemerge con un progetto che amplia l’orizzonte: Speriamo. Un titolo plurale per un lavoro che si apre come spazio collettivo, cinematico, rarefatto. La sua scrittura esplora nuovamente zone profonde, attraversa l’ascoltatore: gli affida frammenti del segreto del disco precedente e li trasforma in una partecipazione condivisa.
Il polistrumentista lombardo conferma la sua capacità di sorprendere, anticipando costantemente le aspettative. Se in Il segreto il suo universo sonoro restava chiuso, privo di featuring, in Speriamo apre le porte a collaborazioni calibrate: Cosmo, Gemitaiz, MACE, Side Baby, Mahmood, Jake La Furia, Izi, Marco Castello, Altea, Amanda Lean e Not for Climbing. Nella sua visione onirica e ipnotica, ogni voce è integrata con precisione nell’arrangiamento, generando un caleidoscopio timbrico che spazia dal neo-soul al rap, dal jazz all’indie pop urbano, dalla disco-dance all’elettronica, fino al cantautorato più morbido e intimista.
Il progetto, articolato in 14 tracce, mostra coesione formale e fluidità narrativa, con una cura dei dettagli produttivi che conferma Venerus come maestro del reinventarsi senza mai perdere la propria impronta autentica.
L’album prende vita grazie a un lavoro a più mani: Filippo Cimatti, produttore e ingegnere del suono, e Andrea Cleopatria, coautore di alcuni testi e autore del quadro a olio che apre la soglia visiva del progetto. La copertina è magnetica: Venerus a torso nudo (ma in jeans) nel folto di un bosco, appoggiato a un tronco, immerso in una luce caravaggesca che fonde realismo e allegoria. La posa ricorda l’iconografia del San Sebastiano ma dettagli contemporanei ne incrinano la sacralità: la sua mano intrecciata con quella di una figura dietro l’albero trasforma il martirio solitario in un gesto di alleanza, un patto silenzioso con l’umanità. Sul margine destro, una motocicletta suggerisce movimento, viaggio, attraversamento. L’immagine non si chiude in un’icona: racconta metamorfosi, oscillando tra radicamento e fuga, vulnerabilità e desiderio di trasformazione – proprio come il disco.
Questa tensione tra fragilità e slancio, tra isolamento e connessione, introduce naturalmente il baricentro emotivo dell’album: la speranza. Nella mitologia greca, Esiodo racconta ελπ?ς (elpis) come l’unica forza rimasta nel vaso di Pandora, quando tutti i mali erano fuggiti nel mondo: un appiglio fragile, capace di consolare e allo stesso tempo di illudere. L’antichità ne riconosceva la doppiezza: la speranza distoglie lo sguardo dall’inevitabile sofferenza, ma alza anche una cortina che offusca la visione nitida del futuro. La filosofia moderna ribadisce la sua ambiguità: Spinoza la definisce “gioia incostante”, inseparabile dalla paura, perché ogni attesa luminosa porta con sé l’ombra del suo possibile rovescio.
Il titolo dell’album, Speriamo, raccoglie queste sfumature e le trasforma in un’invocazione collettiva: affidarsi al percorso che si attraversa, con le sue altalene emotive tra malinconia ed euforia, forza e fragilità, nostalgia e slanci improvvisi. Venerus ci invita a stare dentro ciò che si prova senza filtri. E prima ancora di suggerirlo, lo fa lui stesso. Non dalla distanza di una cattedra, ma dalla stessa fila di banchi: una voce che ci stringe le mani (sudate, tremanti) proprio nell’istante in cui la vita chiama all’interrogazione.
In un brano come “La moto (Alizée)”, che apre il disco, Venerus invita a lasciarsi trasportare. Il mezzo diventa così un corridoio emotivo, un varco tra sogno e percezione dove il cantautore costruisce un paesaggio che vibra tra desiderio e allucinazione. Il suono avanza come un faro nella notte, taglia l’aria e prepara l’ascoltatore a un viaggio fatto di continue sfumature, come se ogni curva rivelasse un nuovo frammento di sé. Con “Tra le tue braccia”, la deriva emotiva si approfondisce, con un Cosmo sorprendentemente morbido e vulnerabile, lontano dal suo abituale dinamismo elettronico. La malinconia prende forma nei rami dei ciliegi che svaniscono, immagine di un sé che vacilla e rischia di dissolversi. Quando il mondo scolora, l’unica bussola possibile è un abbraccio: un varco in cui ritrovare quel frammento di noi che sembrava scivolare via.
In “Ti penso”, l’inseguimento emotivo attraversa ogni angolo di una metropoli contemporanea, fino al bar dove un incontro ha lasciato un’impronta che continua a vibrare. Un pianoforte incalzante scopre la poesia anche negli spigoli più quotidiani della città, trasformando gesti apparentemente banali in dettagli di regia: l’odore improvviso di un fiore, il primo piano di mani osservate distrattamente, minuscoli frammenti che riportano esattamente a quell’istante. Sono queste immagini concrete, quasi tattili, a dare forza al brano, rendendo visibile un sentimento che riaffiora come un taglio di montaggio netto, preciso, inevitabile.
Venerus sa però conferire al disco anche un’anima più urbana e irruente, e per questo non esita a convocare l’artiglieria pesante nel pezzo “Cool”: MACE, Side Baby, Jake La Furia e Mahmood. Il brano vibra tra nostalgia e realtà cruda: l’“old school” fatta di strade, amicizie sincere, appartenenza, e gli eccessi: autodifesa emotiva, soldi, droghe, sesso come anestetico. Racconta una generazione sospesa, tra orgoglio e smarrimento, tra l’immagine costruita e la fragilità nascosta. È il ritratto di chi cerca equilibrio nella musica, nei legami, nel gruppo, pur sapendo che tutto può sgretolarsi in un attimo.
Con delicatezza l’artista ci conduce nella morbidezza di “Felini”, dove un gatto di città si muove tra vicoli, tetti e motori, cercando rifugio e calore. La piccola figura porta con sé sopravvivenza, indipendenza e resilienza, scivolando agile in un mondo di ostacoli e contrasti, dove la frenesia urbana convive con momenti sospesi di quiete e intimità. Il brano racconta un’infanzia e una giovinezza fatte di precarietà e piccole meraviglie, di stupore e nostalgia, di spensieratezza fragile che si accompagna alla durezza della realtà. Ed è in questa delicatezza che il messaggio dell’album si fa luce: come un raggio di sole che filtra tra le fronde di un bosco, invita a lasciarsi andare, a nutrire la speranza e ad abbracciare il flusso dell’esistenza con fiducia e stupore.
Perché proprio come felini, anche con poco, possiamo sognare tanto.
E dopotutto, in questa scatola di cartone che è la vita, ci stiamo abbastanza bene.

