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REVIEWSLE RECENSIONI
03/12/2017
Jane Lee Hooker
Spiritus
Se cercate classe e pulizia, scappate a gambe levate: qui, come detto, si combatte senza fare prigionieri, con basso e batteria che macinano chilometri, chitarre che duellano tra fiumi di sangue e sudore, arrangiamenti ridotti all'osso e volumi esagerati

Jane Lee Hooker. Ecco un nome che rimanda immediatamente al grande John e che ci fa pensare che stiamo per parlare di una nipote o pronipote, che ha intrapreso le orme musicali del nonno. Non è così, però. Sotto la sigla JLH, infatti, non si cela una sola persona, ma un gruppo. Anzi, per la precisione, un supergruppo di ragazze, composto da Dana "Danger" Athens al canto, Hail "Mary" Zadroga al basso (Wives), Tracy "High Top" alla chitarra (Nashville Pussy), Melissa "Cool Whip" Houston (Josh Joplin) alla batteria e Tina "Tbone" Gorin alla chitarra (Helldorado, Bad Wizard).

La seconda cosa che viene in mente, leggendo il nome del combo (e qui non c'è margine d'errore) è che le cinque ragazze amino il Mississippi e Chicago, il blues e tutte le sue derivazioni (soprattutto elettriche e imparentate con il rock). Fatte le presentazioni e circoscritto il campo d'azione della band, rimane solo da parlare di questo sophomore (il primo album, No B! era uscito nel 2016), che arriva a conferma della stabilità di un progetto che solo l’anno scorso si pensava fosse estemporaneo.

Spiritus altro non è che il seguito in fotocopia del suo predecessore: queste cinque ragazze, infatti, sono delle indemoniate che continuano a stare in sala di registrazione come sul palco, dove suonare finché stanchezza, crampi e sudore non prendano il sopravvento. Anche se stiamo parlando di un disco in studio, Spiritus suona, infatti, più come una jam session, ove unico paletto, per ovvie ragioni di spazio, è una lunghezza dei brani ridotta rispetto a quella che avrebbero dal vivo.

Se fossero on stage, queste cinque ragazze, infatti, sverrebbero piuttosto che mollare il colpo e gli strumenti; in sala, invece, contengono le loro intemperanze entro i cinque minuti di media (con l’unica eccezione per la conclusiva The Breeze, che ne dura quasi dieci), dando vita a una amalgama rumorosissima di hard rock blues strattonato verso il punk e il garage da vigorosi up tempo. Se cercate classe e pulizia, scappate a gambe levate: qui, come detto, si combatte senza fare prigionieri, con basso e batteria che macinano chilometri, chitarre che duellano tra fiumi di sangue e sudore, arrangiamenti ridotti all'osso e volumi esagerati. Dall’incandescente boogie dell’iniziale How Ya Doin?, attraverso il punk blues sotto anfetamine di Black Rat e il rock saltellante di Ends Meet, si arriva fino alla fine con solo due soste per rifiatare, le ballate blues How Bright The Moon e la citata The Breeze.

La monolitica potenza delle JLH è, però, al contempo fiore all’occhiello e limite: se il disco trasuda autentica passione e una divertita voglia di far casino, il reiterarsi di certe formule si trasforma ben presto in uno steccato quasi impossibile da superare. E se in prima battuta la proposta eccita, e non poco, gli animi di chi ama il rock blues più verace, alla lunga il giochino finisce per mostrare una certa ripetitività. Da ascoltare a tutto volume, con buona pace per le orecchie dei vicini.