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SPEAKER'S CORNERA RUOTA LIBERA
12/11/2020
On Jarrett
Sprofondare nell’Infinite Jest
Mi piace immaginare Jarrett in quella transvolata oceanica durante la quale avrà potuto far vagare lo sguardo sul susseguirsi di nubi, quelle stesse nubi che David Foster Wallace avrà a sua volta guardato nei voli che lo conducevano da una tappa all’altra del tour di presentazione del suo magnum opus, Infinite Jest, e che ritroviamo in copertina.
di Matteo Minelli e Ornella Genua

“Scendi, pilota
Fammi vedere, scendi
A bassa quota
Che guardi meglio
E possa raccontare
Cos'è che luccica sul grande mare…

Ne sono certo:
È proprio un pianoforte da concerto
Dal suono avuto dal mistero
Un pianoforte a coda lunga, nero”

(Paolo Conte, Aguaplano, 1987)

 

A volte basta una copertina, un impasto di colori per farti acquistare un cd, oppure il semplice ascolto di un brano che ti muove nella stessa direzione. Nel caso di Rio oltre alla cover mi catturò immediatamente anche un file su YouTube con l’immagine di un cielo pieno di nuvole che ne accompagnava l’ascolto; non ci pensai due volte prima di ordinare l’album.


Una volta avuto tra le mani il cd, mi colpì la ripartizione in due campiture di colore, non separate nettamente da una linea di demarcazione: il confine tra le due tinte è una zona che si riesce a oltrepassare non con una banale sfumatura ma con qualcosa di più energico, qualcosa di simile a un graffito.

Può essere questa la chiave di lettura per entrare nel mondo del nostro pianista, genio della contaminazione tra classico e contemporaneo e dell’improvvisazione, che - a dispetto del nome - è una scienza esatta con regole ferree.

Ho scoperto poi che la traccia ascoltata era la Part. IX, fatalità di un numero, dato che quel primo concerto di Jarrett al di fuori della “mappa” rappresentata da Europa, America e Giappone, fu registrato proprio il 9 aprile 2011 nel Teatro Municipal di Rio de Janeiro, il fiume di gennaio cantato da Paolo Conte.

Mi piace immaginare Jarrett in quella transvolata oceanica durante la quale avrà potuto far vagare lo sguardo sul susseguirsi di nubi, quelle stesse nubi che David Foster Wallace avrà a sua volta guardato nei voli che lo conducevano da una tappa all’altra del tour di presentazione del suo magnum opus, Infinite Jest, e che ritroviamo in copertina.

 

La cosa sorprendente che si apprende da libro/intervista “Come diventare sé stessi” di David Lipsky (un resoconto di quel tour) è che lo scrittore non gradiva la pubblicazione di quell’immagine mentre avrebbe preferito una foto di scena tratta da Metropolis di Fritz Lang[i]. Storie di editing e di una scelta grafica che per i fan dello scrittore americano ha generato un innesto cerebrale. Difficile, infatti, distogliersi da quel paradigma, difficile pensare al libro di Foster Wallace senza averne in mente la copertina, così come è difficile pensare a Jarrett separato dal pianoforte.

“Ora suono solo nei sogni”.

Questa è la tragica rivelazione che Keith Jarrett ha fatto a due anni dai due ictus che lo hanno quasi paralizzato: l’uomo che in una sera del 1975 a Colonia regalò al pubblico una gemma della Storia della Musica, il Köln Concert (riprodotto in un album jazz da cinque milioni di copie vendute), non appoggerà più le dita sulla tastiera.

Non sono più un pianista” è la sua frase che mi ha sferrato un duro colpo mentre leggevo il giornale; non è ovviamente possibile immedesimarsi nella consistenza di questo dolore che accompagna, a tutti i livelli, il pianista.

A questo si aggiunge l’amara scoperta - non so se si tratti di una questione legata ad eventuali diritti - di non ritrovare più nel web i file dei brani che amavo tanto. Mi sono sentito andare a sbattere contro un muro, una sorta di reset che per certi versi mi ha messo di fronte all’errore in cui s’incappa dando per scontato che tutto sia sempre disponibile e a portata di click.

 

Part I. Applausi/Riconoscimenti

“Anche se per metà folle, quest’uomo viene riassorbito dalla follia totale del pubblico; anche se perfettamente razionale, burocrate dell’inferno, genio tacito del sopravvivere, sa già che verrà distrutto dal disprezzo, tipico del pubblico per i sopravvissuti”.  (Don DeLillo, Great Jones Street)

Non è questo il caso: al termine di Rio, con la Part XV, il pubblico esplode in un’ovazione carica di entusiasmo e di sincero ringraziamento per l’Arte di cui ha goduto per il dono che l’artista ha tratto da sé, improvvisando con il suono avuto dal mistero, per riprendere l’esergo di Paolo Conte, perché dove c'è un piano/intorno c'è sempre gente che fa baccano.

“La celebrità esige ogni eccesso, intendo la celebrità vera, che è una fluorescenza divoratrice”.

     (Don DeLillo, Great Jones Street)

David Foster Wallace si preoccupava moltissimo dell’opinione della gente, del fatto che capisse di cosa stava parlando; mentre scriveva Infinite Jest era preoccupatissimo che i lettori lo avrebbero ritenuto un flusso di coscienza, un fiume di parole scritto di getto, senza avere in mente un progetto strutturato. La stessa cosa che si potrebbe pensare di un’improvvisazione musicale, se non se ne conoscono le regole; del resto come si fa ad essere sulla stessa lunghezza d’onda di un genio? Come si fa a seguire un esecutore mentre vola libero tra le note fino a sviluppare variazioni su variazioni? Il mio rapporto con la musica Jazz consiste proprio in questo: la sperimentazione del limite. Prima che il peso della cattedrale di note diventi insostenibile, a un certo punto avverto il bisogno di respirare e di ritornare, se non al nucleo di partenza (la prima pietra), almeno a una base che permetta di ricominciare a sostenere lo sviluppo dei suoni.

 

Part II. Rêverie

 “Il Maestro è nell’anima

e dentro all’anima per sempre resterà”

    (Paolo Conte, Il Maestro)

Nei miei ricordi Keith Jarrett evoca l’attesa dentro un cinema, stipato (assembrato, direi oggi) assieme a tante altre persone, per incontrare un regista e assistere alla sua ultima produzione. Faccio fatica a descrivere i sentimenti che questo ricordo mi suscita, anche alla luce della recente chiusura delle sale a seguito della pandemia.

Era il lontano 1994 e si trattava di un incontro con Nanni Moretti che presentava il suo Caro Diario; non scorderò mai il finale della prima parte di questo film a episodi (la Part I per usare la terminologia degli album di Jarrett) In Vespa, con il regista in sella a vagare per le vie e i quartieri di una Roma estiva, quindi deserta. Dopo svariate incursioni dentro l’Urbe il suo viaggio terminava con un pellegrinaggio verso la spiaggia dove fu ucciso Pier Paolo Pasolini. Le immagini raccontano una ordinarietà, una desolazione legata a luoghi dismessi, a situazioni di povertà, forse i resti di quel mondo primigenio che tanto lo scrittore cercava di rintracciare in una civiltà alle soglie dell’omologazione consumistica. Di fronte a questo schianto, come se l’aereo immerso nelle nubi wallaciane fosse caduto in picchiata, la musica arriva a permeare e a consolare il corpo e la mente con quel mistero che i suoni incarnano.

Quella che sentivo era la musica del Köln Concert, quel meraviglioso fluire creato in una sera, in un concerto che non doveva nemmeno avere luogo, dato che Jarrett giunse in Germania da Zurigo stanco per il lungo viaggio e invece di trovare un piano adatto ne ebbe a disposizione uno di scarsa qualità[ii]. Leggenda racconta che se non fosse stato per l’insistenza dell’organizzatrice, il pianista - già risalito in auto per andarsene, con un gesto alla Benedetti Michelangeli – non avrebbe tenuto il concerto.

“Non mi fido

In certi casi un pianoforte è un grido.”

Sì, deve trattarsi di questo grido quando sentiamo Jarrett cantare sopra/dentro le note (in questo, come tutti i pianisti venuti dopo, è figlio di Glenn Gould), quasi a buttar fuori l’enormità che sente dentro di sé e che la musica da lui eseguita rappresenta. Proprio Gould costituisce un ulteriore raccordo di filiazione con quel suo essere moderno, innovatore nell’interpretazione, ma allo stesso tempo fuori dalla modernità delle scelte di repertorio con il suo continuo riferirsi (quasi fosse un rifugio) a Johann Sebastian Bach. Preludi e Fughe come architrave di riferimento, modello culminato per Keith nella sua interpretazione dei Preludi e fughe op. 87 di Dimitri Shostakovich. Ed è proprio con una fuga[iii] che anch’io mi sottraggo al rischio di scrivere un epitaffio; chiamiamola più un’uscita di scena silente e dolorosa. A volte è meglio rifugiarsi nei suoni per parare quelli che Philip Roth chiamava i duri colpi della vita che si abbattono su di no[iv]i.

 

Gira pilota

Recuperiamo il cielo ad alta quota

Torna nel mondo dal bel colore baio

Trovami il fiume di gennaio

(Paolo Conte, Aguaplano, 1987)

 

[i] Non per chissà quali rimandi di senso, ma perché era cool.

[ii] Recentemente Nick Cave ha scritto in uno dei suoi Red Hand files in merito al desiderio di possedere un pianoforte Fazioli, dopo averlo avuto a disposizione per il suo concerto in streaming dal titolo: Idiot Prayer.

[iii] …all’Inglese, sempre per citare una canzone di Paolo Conte

[iv] Cfr. Philip Roth, Pastorale Americana (1997)


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