"Stabat Mater dolorósa
iuxta crucem lacrimósa,
dum pendébat Fílius".
Devo in via preliminare confessare che di fronte agli immani scenari di dolore che attraversano il mondo negli ultimi tempi mi è sembrato quasi puerile scrivere di musica, se non addirittura deplorevole. Vedere certe immagini ti toglie la voglia di scrivere di pezzi, stili, generi e via dicendo.
Sino a quando il vedere una madre palestinese tenere in braccio un bimbo denutrito con gli occhi così scavati dal dolore da non riuscire neanche più a piangere, da un lato mi ha profondamente turbato, dall’altro lato, per gli strani meccanismi delle sinapsi celebrali, mi ha fatto tornare in mente la mostra Mother tenutasi nei mesi scorsi presso il Castello Sforzesco di Milano, dove la Pietà Rondanini di Michelangelo (l’ultima opera a cui l’artista lavorò fino a pochi giorni dalla sua morte e che, nelle sue intenzioni, sarebbe dovuta essere stata il proprio monumento funebre) veniva illuminata da una installazione ideata ad hoc da Robert Wilson (per farvi venire un’idea allego alcune foto trovate sul web essendo stato proibito di scattare foto o video durante la partecipazione all’evento).
L’impatto emotivo con quella installazione è stato fortissimo: una statua lontanissima (anche nel tempo) dalla Pietà del Vaticano (realizzata in giovane età) e dalla produzione artistica del fiorentino, compresa la precedente Pietà Bandini.
Michelangelo, noto al mondo per la stupefacente capacità di rendere nella scultura (ma non solo, pensiamo alla Cappella Sistina) la bellezza ed il vigore del corpo umano, modellando in modo unico ed irripetibile il marmo, qui, alla fine della sua vita, ci mostra il mistero del dolore e della morte, anche attraverso una profonda modifica del proprio modo di fare arte.
Non sapremo mai quale fosse nella mente dell’artista la versione definitiva, ma nonostante la non finitezza, scorgiamo nel blocco di marmo un modo di lavorarlo volto all’essenziale, quasi ad anticipare di secoli le correnti artistiche del Novecento e dell’arte contemporanea.
Una Madre ed il Figlio (con le figure scarnificate e non finite, tranne per alcune parti relativa al primigenio progetto) abbracciati in uno modo singolare tanto da non capire se è Lei che sostiene Lui (come sembrerebbe pacifico da una visione frontale), oppure, come sembrerebbe intravedere da un’ottica posteriore, se sia la Madre ad appoggiarsi al Figlio, in un ultimo abbraccio.
Il tutto, reso ancora più vivido, dall’emersione del blocco marmoreo dal buio assoluto iniziale e che viene di volta in volta rischiarato, quasi sbalzato, da una sequenza di luci ideate dal grande registra/fotografo, che raggiunge il suo climax nell’illuminazione dell’opera con un bianco spettrale con la pietra poggiata sulla destra (vedasi foto) illuminata da uno spotlight rosso sangue.
E come accompagnamento musicale, ovviamente, lo Stabat Mater nella versione composta da Arvo Part nel 1985, inizialmente come Trio su commissione della fondazione Alban Berg e poi rielaborata per coro ed orchestra.
E, allora, da quella immagine e dal ricordo collegato, ha incominciato a rifluire un rivolo di domande: chi ci salverà dalla banalità del male? I nostri governi? La politica mondiale? L’appartenere ad uno schieramento? Noi stessi? No, niente di tutto questo, solo una cosa, può agire l’uomo: la bellezza nelle sue varie forme e modalità: un tramonto o un alba con una luce particolare, un panorama suggestivo, una carezza da parte di chi ci vuol bene, lo sguardo della persona amata, la pittura, le opere di scultura, e, certo, la musica.
La musica che ci fa vibrare i cuori in quell’anelito dell’umano che ci sussurra quando siamo da soli avanti noi stessi, che se non troveremo di certo il compimento della nostra ricerca di felicità completa in essa, per alcuni di noi ci evita soccombere alle nostre oscurità e alle malvagità del mondo; ci permette di dare ospitalità a quel disagio “strano” che ci attanaglia i cuori, cercando di salvarci dal baratro del non sense e dal vuoto, a cui il potere con le sue varie tentazioni (ognuno metta quella che ritiene la più seducente) vuole acchetarci e blandirci anche, talvolta, mediante il dare seguito ad una serie di nostre immaginazioni (il più delle volte indotte dal potere stesso).
Così quando mi è capitato sottomano questo disco ecco che è rifiorito il desiderio di scrivere quello che oramai da tempo è uno dei capisaldi della mia esperienza musicale: il reperire, nella immane produzione musicale odierna, una forma che possa permettere di salvare dall’oblio la grande tradizione musicale occidentale con nuove forme espressive di musica contemporanea.
"O quam tristis et afflícta
fuit illa benedícta.
Mater Unigéniti!"
Come già scritto (vedasi recensione di In principio era il suono) lo Stabat Mater è una sequenza (che viene attribuita a Fra’ Jacopone da Todi) in uso a partire dal XIV secolo nell’Italia centro-meridionale, fino a quando con un proprio breve Benedetto XIII nel 1727 la introdusse liturgicamente introducendo la seconda Festa dell’Addolorata (O Madonna dei Sette Dolori) il venerdì prima delle Domenica delle Palme, (la prima cade il 15 settembre) ma nella prassi popolare, recitata durante la Via Crucis del Venerdì di Passione.
Questo inno è stato musicato da grandissimi musicisti del passato da Desprez a Orlando di Lasso, da Palestrina ai due Scarlatti, Alessandro e Domenico, da Leo a Pergolesi (per me il più bello, scritto negli ultimi tempi della sua breve vita), da Vivaldi a Rossini, da Dvorak a Verdi, da Poulenc a Penderecki.
Non pensiate che si tratta di una musica del passato, dal 1985 ad oggi, ovvero negli ultimi 40 anni, almeno 50 compositori contemporanei, tra cui, come sopra richiamato, Arvo Part, hanno scritto una loro versione musicale di tale inno.
Gli Electrio hanno usato come base di molti dei brani dell’album le linee melodiche della versione dello Stabat Mater di Marco Rosano, scritta per il notissimo contro-tenore Andreas Scholl, unendovi parti elettroniche ed inserti chitarristici.
Il risultato è una musica senza tempo, un ponte musicale che unisce il passato con il presente, sin dall’iniziale omonimo primo pezzo, dove da un tappeto sonoro elettronico in crescendo, si erge il canto lirico della prima strofa dello Stabat Mater cantato dalla soprano Sandra LindÞorsteinsdóttir.
Segue un altro brano che musica la terza strofa dell’inno, ovvero “O quam tristis”, dove il pathos espressivo della voce trova un sottofondo di puntillismo musicale di matrice elettronica molto coinvolgente.
Nella parte centrale dell’album, come potrete leggere nell’intervista gentilmente concessami da Francesco Rista, troviamo tre pezzi “laici” scritti nei secoli XV e XVI da John Dowload e Claudio Monteverdi, quasi a testimoniare, come dato fattuale, che l’uomo è sintesi di corpo e spirito, possiede in sé la spinta ideale al bene ed il germe del male, e che, non dovremo mai scordarcelo, il sentimento amoroso (con le sue gioie e dolori) è quello che ci rende uomini e donne veri, e quindi più umani come aveva intuito il Divin Poeta nel canto finale della Commedia “Amor che muove il sole e le stelle”, e non di certo la volontà di potere e di prevaricazione ammantata di qualsivoglia ideologia ed in qualunque situazione da quella intima e personale, sino a quella pubblica nazionale ed internazionale.
Il trittico inizia con "Come heavy sleep", forse il brano più conosciuto della produzione musicale di John Dowload, avendolo recentemente suonato anche Sting nel suo album Into the labyrinth dedicato appunto al musicista inglese noto, in particolare, per la sua produzione di musica per liuto.
Dowload è stato il protagonista di una vita errabonda in tutta Europa, in un’epoca (anche quella, la storia si ripete) piena di contrasti; convertitosi al Cattolicesimo all’estero (dove si recò pare a seguito del suo infruttuoso tentativo di diventare musicista alla corte di Elisabetta I) per poi abiurare e ritornare alla fede protestante (alcuni studiosi sostengono sempre al fine, non riuscito, di divenire, musico di corte, cosa che gli riuscì verso la fine della vita con un altro Reale).
Sicuramente in ogni caso, al di là dei personali rapporti con i Reali Inglesi, la sua musica è il classico esempio di quella ricercata melanconia tipica della produzione artistica elisabettiana, come correttamente evidenziato da Francesco nella sua intervista (per chi volesse approfondire suggerisco la lettura dei fondamentali libri di Frances Yates).
Questo brano, unitamente al successivo, "flow my tears", anch’essa notissima pavana scritta per liuto si fonda ovviamente sulla chitarra di Rista, sulle cui note di un dolce languore malinconico fluttua il cantato del soprano.
Dopo "Sancta Mater", troviamo il bellissimo madrigale di Monteverdi "Si dolce e ‘l tormento", scritto dal compositore cremonese nel periodo veneziano, iniziato con la pubblicazione del VI Libro dei Madrigali, iniziatore della cosiddetta “seconda prattica”, neologismo coniato dallo stesso Monteverdi per valorizzare, contro i suoi detrattori, l’importanza dei testi musicati, rispetto, appunto, alla “prima pratica” che piegava il testo alle esigenze musicali.
Anche questo brano ha una sua storia particolare, essendo stato tratto dalla raccolta titolata “Quarto scherzo delle ariose vaghezze” del monaco Agostiniano Carlo Milanuzzi, compositore ovviamente sacro, ma dove si trovano altri esempi di “musica profana”, ovvero arie musicale di carattere amoroso e/o delle pene d’amore (situazioni che a noi paiono oltremodo stranianti ma che, nel Seicento veneziano, potevano convivere)
"Fac me cruce custodíri,
morte Christi praemuníri,
confovéri grátia"
L’album volge alla chiusura con "Fac me Cruce", riuscito esempio di felice connubio tra la partitura chitarristica ed i fondali elettronici tratteggiati da Simone Giordano.
Il disco non poteva non chiudersi dove dopo un breve intro di arpeggi chitarristici, con il lirico "Amen" finale, con l’auspicio che questo così sia, permetta a ciascuno di noi di non restare indifferenti a quello che accade, sia nella vita di tutti i giorni, sia nei grandi e terribili eventi di cui ci tocca assistere attoniti, perché se c’è una cosa che nessuno ci può togliere (se non noi stessi, è semplice basta uno scroll) è quel di prestare ascolto a quel grido di dolore profondo che ci percuote, come a ricordarci quel grido, ed il suo ascolto, è quello che ci fa uomini.
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Poiché l’obiettivo perseguito di Electrio è quello di avvicinare la musica classica e quella moderna con un approccio originale, risulta in assonanza con la ricerca musicale di chi scrive (vedasi i richiami in recensione) ringrazio Francesco per la disponibilità a concedere (via mail, vivendo in una landa “boreale”) questa intervista a Loudd.
Ciao Francesco e grazie per la disponibilità. Come prima domanda partiamo con le presentazioni: come nasce Electrio e quali sono gli obiettivi dell’ensemble?
ELECTRIO nasce a Copenaghen nel 2021 da due collaborazioni precedenti: la prima con Simone Giordano, con cui avevo già scritto alcuni lavori per chitarra ed elettronica (il più significativo è stato Aleos, nel 2020) e la seconda con Sandra Lind Þorsteinsdóttir, con la quale avevamo un Duo per voce e chitarra.
Il desiderio di unire il mondo classico con uno più avanguardistico e crossover ci ha portati nella stessa direzione, e così abbiamo iniziato a lavorare su questo Stabat Mater. È stato affascinante vedere come musicisti provenienti da mondi diversi, più accademico nel mio caso, quello operistico per Sandra e quello sperimentale di Simone, legato alla musica elettronica ed elettroacustica, abbiano trovato un punto d’incontro. Da qui è nato tutto.
Su queste pagine ho avuto già modo di parlare della frattura che si è creata tra la musica contemporanea “classica” e l’ascoltatore, rilevando tuttavia come vi siano delle realtà che cercano di coniugare la ricerca e l’utilizzo di strumentazione contemporanea con la valorizzazione dell’immenso patrimonio musicale del passato, al fine di dare forma ad una musica attuale che guarda al passato ma “suoni” contemporanea. Pensi che il vostro lavoro sia un tentativo in tale senso? Ovvero vi muovono diverse motivazioni?
Da musicista e compositore credo che non sia necessario, a tutti i costi, creare qualcosa di “nuovo” – anche perché non spetta a noi definire cosa sia nuovo e cosa non lo sia. Piuttosto, trovo più significativo utilizzare tecniche e tradizioni del passato e riportarle nel mondo a noi contemporaneo, trasformandole così in qualcosa che diventi realmente moderno.
Penso, ad esempio, alle composizioni di Caroline Shaw e Nico Muhly. Credo che il nostro lavoro sia un tentativo di rompere le classificazioni musicali, di superare ciò che definisce un brano come classico, pop e così via. Io credo nella musica come in un’arte senza etichette, senza confini.
Ecco, questo è ciò che cerchiamo di fare: rendere la nostra musica accessibile a tutti, senza etichette e senza tempo.
Passiamo al disco. Lo Stabat Mater, sequenza che la tradizione vuole scritta da Fra’ Jacopone da Todi, è stata musica da grandissimi musicisti del passato tra cui Vivaldi, Scarlatti e Pergolesi (per me l’opera più grande) ma Electrio, nell’ottica di cui sopra, esegue dei brani dello Stabat Mater scritto dal compositore contemporaneo Marco Rosano appositamente per il celebre controtenore tedesco Andreas Scholl – anche questo un link col passato che ha visto grandi compositori scrivere per (o su commissione) di noti interpreti – puoi dirci le ragioni di tale scelta?
Anni fa scoprii lo Stabat Mater di Marco Rosano. Avendo anche cantato in diversi cori, sono sempre stato affascinato dalla musica sacra, da quella musica che racchiude in sé una profonda spiritualità, non necessariamente legata alla religione. Le note semplici di Marco Rosano, cantate in maniera sublime da Andreas Scholl, mi hanno catturato e mi hanno spinto a pensare a un modo per poter suonare questo lavoro sulla chitarra.
Un arrangiamento per chitarra classica sola, però, avrebbe rischiato di sminuire l’opera, perché mi avrebbe costretto a togliere note e a ridurre il tutto a uno strumento meraviglioso, ma delicato e troppo intimo. Per questo ho coinvolto Sandra e Simone in un arrangiamento in cui l’obiettivo era mantenere intatta la spiritualità e l’enormità del lavoro, la sua magnificenza e la sua grandiosità. Grazie all’elettronica, questo processo è stato possibile.
Ho così mantenuto le linee melodiche di Rosano e la linea originale della voce, intervenendo invece sui livelli sonori e sui colori che chitarra ed elettronica, con l’aiuto di Simone, sono in grado di creare.
Il disco contiene anche dei brani non prettamente religiosi, come “Si dolce è ‘l tormento”, un madrigale tratto dal “Quarto scherzo delle ariose vaghezze” di Claudio Monteverdi (e quindi composta nel periodo della cosiddetta “Seconda Prattica”) e due composizioni dell’"errabondo" John Dowload: “Come, heavy sleep” e forse la sua più celebre pavana: “Flow my tears”. Quali sono i motivi di tali scelte e come si inseriscono nel concept dell’album?
STABAT MATER è una preghiera laica, e come tale abbiamo deciso di inserire brani che condividessero un significato comune: il dolore provocato da un amore profondo, trasformato in sofferenza e solitudine.
Dopo i brani di Marco Rosano, che a nostro avviso si prestavano particolarmente bene a un arrangiamento con questo ensemble, abbiamo scelto di lavorare su "Come, Heavy Sleep". Qui, lo strumento principale dopo la voce è il liuto, facilmente trasferibile sulla chitarra elettrica. Il testo invoca il sonno come rifugio dalla sofferenza e dalla stanchezza della vita, una sorta di morte temporanea capace di portare pace e sollievo a un cuore oppresso.
In "Flow, My Tears", invece, il testo esprime un lamento profondo: le lacrime scorrono come un fiume infinito, simbolo di tristezza, perdita e solitudine. È un vero e proprio inno al dolore, che riflette l’estetica elisabettiana della malinconia, considerata all’epoca quasi una condizione “nobile” dell’animo. Qui Simone, con la sua elettronica, ha utilizzato sintetizzatori dal suono appuntito e dai continui glissandi, capaci di evocare un senso di instabilità e di tristezza.
Una domanda personale: ho trovato molto interessante l’utilizzo della chitarra da te suonata che caratterizza il suono del gruppo. Quali sono stati i tuoi maestri, le tue influenze e che approccio hai utilizzato rispetto ad un repertorio “classico”?
Ti ringrazio. Ho studiato con diversi maestri, tra cui, per citarne alcuni, Oscar Ghiglia, Göran Söllscher e David Hansson. Considero maestri anche grandi musicisti come Rolf Lislevand ed Edin Karamazov, delle cui interpretazioni ho fatto tesoro ascoltando e studiando i loro dischi.
In questo album ho adottato sicuramente un approccio classico: la chitarra elettrica è suonata con le dita, alla ricerca di un suono caldo e presente, simile a quello delle corde in budello. Tuttavia, ho affrontato questo lavoro con una maggiore libertà interpretativa, trattandosi di un arrangiamento, e mi sono lasciato guidare dai diversi effetti che la mia pedaliera per chitarra elettrica può offrire. Amo profondamente questo strumento: ha mille sfaccettature, colori e suoni tutti da scoprire, giorno dopo giorno.
L’ultima domanda riguarda eventuali futuri concerti. Avete debuttato con questo progetto in Islanda nel 2022 e successivamente vi siete esibiti in vari luoghi in Danimarca e della stessa Islanda, ci sarà la possibilità di vedervi “più vicino”?
Paradossalmente è più facile suonare all’estero, ma il desiderio di portare questo lavoro nel nostro paese è grande! Speriamo che, con l’uscita del disco, si possano trovare festival ed eventi interessati a ospitare una performance in Italia.