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REVIEWSLE RECENSIONI
18/01/2018
Starcrawler
Starcrawler
È roba semplice, sporca e incontaminata, con una resa sonora magnifica che cattura la spontaneità e non la snatura con inutili orpelli e sovraincisioni.

In questi tempi di eterno presente e di uscite discografiche al limite della saturazione, fa ancora molto piacere accostarsi ad un album con la piena consapevolezza che questo è stato atteso, desiderato, promosso con un entusiasmo ed un’eccitazione che sembrano proprio essere quelli dei tempi d’oro dell’industria musicale.

In questo caso, d’altronde, i presupposti ci sono tutti: gli Starcrawler sono quattro ragazzini di Los Angeles (il più vecchio ha 21 anni), sono capitanati da un’adolescente magra e dallo sguardo serioso che si veste e si pettina come se sulla Strip fossero ancora gli anni ’80. Sul palco pare sputi sangue (non in senso metaforico ma come artificio scenico) e chi l'ha vista giura che sia un’autentica forza della natura. Date un’occhiata al divertente video di “I Love LA” (girato dalla famosa fotografa Autumn De Wilde, la madre della cantante di cui sopra) e vi farete immediatamente un’idea anche del resto del gruppo.

Per descrivere la loro musica, che ha debuttato qualche mese fa con il singolo “Ants”, che ha catturato l’attenzione di Elton John al punto che l'ha trasmesso nel suo programma radio, sono stati scomodati i nomi di Runaways, Yeah Yeah Yeahs, Ozzy Osbourne, Cramps, Lydia Lunch, Alice Cooper e a questo punto aggiungerei anche New York Dolls e T. Rex, visto che siamo in tema.

Se tutto questo vi sembra esagerato sappiate che sì, un po' lo è ma che è bellissimo giocare con tutte queste aspettative. Dopotutto li ha messi sotto contratto la Rough Trade e Geoff Travis, uno che forse ha il pedigree necessario per essere ascoltato, ha detto di loro che gli ricordano l’essenza stessa del rock.

Infine, li ha prodotti Ryan Adams, che è un altro che due o tre cosette di che cosa voglia dire la parola “Rock” potrebbe insegnarle.

Ecco, Arrow De Wilde (voce), Henri Cash (chitarra), Tim Franco (basso) e Austin Smith (batteria) arrivano al disco di debutto con un sacco di occhi puntati addosso, con un battage pubblicitario notevole e con un livello di eccitazione che non può più essere quella dei tempi d’oro ma che prova seriamente ad andarci vicino.

Non so se sia vero che il Glam rappresenterà il trend per eccellenza del 2018: a me sembra piuttosto che ormai ci siano talmente tanti stimoli, talmente tanta dispersione, talmente tante possibilità, che ciascuno può ritagliarsi il proprio spazio e da lì continuare ad esistere e a racimolare consensi, a dispetto di qualunque analisi socioculturale si possa fare su ciò che “va di moda” in un determinato momento.

Non c'è dubbio che gli Starcrawler guardino al Glam, comunque: al di là del look, i riff di chitarra sono inconfondibili, così come l’attitudine selvaggia della loro musica, i loro up-tempo indiavolati e le vocals indolenti e sbarazzine della De Wilde.

È roba semplice, sporca e incontaminata, con una resa sonora magnifica che cattura la spontaneità e non la snatura con inutili orpelli e sovraincisioni. D’altronde Ryan Adams è uno che in questo mondo ci sguazza, immagino che si sarà trovato a meraviglia con loro; di sicuro non ha avuto nessuna difficoltà a metterli in grado di graffiare davvero.

Non è tutto fumo, comunque, non è solo attitudine. Questi qui sanno anche scrivere canzoni: al di là del singolo “I Love L.A.”, che è una botta di energia mica da ridere e che tra riff iniziale e ritornello ha buone probabilità di diventare un Instant Classic, la scaletta mostra una serie di episodi di sicura presa e sufficientemente variegati in modo da non annoiare già dopo dieci minuti.

Tutta roba da tre accordi e via, intendiamoci, ma è proprio questo feeling da Garage, questa urgenza di divertirsi e di suonare a tutto volume che secondo me riuscirà a conquistare in pieno. Del resto saranno anche giovani ma mostrano di sapere bene quello che vogliono: dall’iniziale assalto frontale di “Train” (un minuto e mezzo a cui non aggiungeresti nulla di più), alle bordate Hard Rock di “Love’s Gone Again” e “Different Angles”, ad una “Pussy Tower” con refrain da Party selvaggio, fino ad un rallentamento di ritmo quasi sabbathiano in “Chiken Woman” (non a caso il riff di basso della seconda parte ricorda molto “Paranoid”) e nella blueseggiante “What I Want”. C'è pure un omaggio involontario a “Smells Like Teen Spirit” (“Full Of Pride”) e una quasi ballad dal feeling sinistro (“Tears”). Il tutto in soli 28 minuti di durata.

Ditelo pure, coraggio: è la solita roba, sono sempre i soliti accordi, le solite melodie, queste cose le abbiamo sentite migliaia di volte, gli anni ’70 sono finiti, bisogna smetterla di suonare così solo perché Reynolds ha pubblicato un libro sul Glam…

Questi e altri commenti li leggeremo di sicuro, nei giorni e nei mesi a venire. E può anche darsi che una qualche ragione questi presunti detrattori ce l’abbiano pure. Io francamente me ne sbatto: questo disco è una meraviglia di potenza e freschezza e voglio godermelo finché non me ne sarò stancato. Non saranno più gli anni ’80 ma potremo ancora entusiasmarci per un disco, spero…