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REVIEWSLE RECENSIONI
20/06/2020
Rio
State Of Mind
L’artista partenopeo si accoda ad una lunga tradizione di influenza americana in terra napoletana, pensando al già citato Pino Daniele, a Tullio De Piscopo, Renato Carosone e tanti altri nomi eccellenti.
di Gilberto Ongaro

Ricordate quelle sonorità soul blues, sopravvissute in un arco di almeno quarant’anni senza grandi modifiche? Dove svettavano voci ruvide come quella di Joe Cocker, ma anche più tenui e in falsetto come quella di Pino Daniele, o più grintose come Giorgia, condividendo un terreno simile? C’era una sorta di macrogenere internazionale, dove confluivano insieme suggestioni black, funk e disco senza confini, e che dagli Stati Uniti approdavano anche in Europa, incarnando lo spirito di (quasi) tutte le provincie, le periferie. Ognuno la interpretava a modo proprio ovviamente, ma c’erano come dire, delle coordinate comuni e immutabili. Ecco, l’album “State of mind” di Rio si ascrive a questo universo, fatto di blue notes ma anche di raffinatezze armoniche degne degli Earth Wind & Fire.

Ma chi è Rio? Rio è Maurizio De Franchis, nome forse poco noto ai più, ma prestigioso nell’ambito dei musicisti. De Franchis vanta collaborazioni con Gianni Bella e Tony Esposito (sua la voce in “Sinuè”), ed è anche foriero di un progetto di successo, i Souled Out, coi quali nel 1991 firma il successo internazionale “Shine on”. Se i Souled Out non vi dicono nulla, forse il nome che assunsero successivamente lo ricorderete di più: Planet Funk.

Ma in tutto questo lavoro, a Maurizio mancava una dimensione: quella della sua espressione personale. E la trova assumendo il moniker Rio, nome del progetto dove egli è finalmente libero di manifestare la sua visione musicale, senza compromessi. Questo lavoro rappresenta lo stato della sua mente, per l’appunto il suo “State of mind”. L’artista partenopeo si accoda ad una lunga tradizione di influenza americana in terra napoletana, pensando al già citato Pino Daniele, a Tullio De Piscopo, Renato Carosone e tanti altri nomi eccellenti. Ogni epoca ha la sua contaminazione. E qui ci troviamo suoni vintage come il piano elettrico, nella chitarra echi di Eric Clapton ed altre mani dal sapore storico. Atmosfere soffuse affiancate a momenti più energici, ma sempre mossi da eleganza. Spiccano gli arrangiamenti per tromba, trombone e sax, in episodi come la titletrack, o come in “Don’t stop the rhythm”. Ma, uscendo dal dettaglio (ognuna delle undici canzoni ha qualcosa che andrebbe sottolineato, inclusa la bonus track), si ha nel complesso la sensazione di ascoltare musica fuori dal tempo e fuori dalle mode. E il risultato è un ascolto che rilassa e solleva.


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