Nella prima metà degli anni ’80, nel nord della Gran Bretagna, nascono molti gruppi che parte della critica specializzata allinea, forse in modo un po' frettoloso, ma non completamente a torto, sotto l’egida “combat rock”, termine mutuato dal celeberrimo album dei Clash del 1982.
Dalla Scozia all’Irlanda, passando per il piccolo Galles, si affacciano così alla scena musicale europea band come U2, Alarm, Aslan e Big Country, solo per citare alcune delle più famose.
Pur con i rispettivi distinguo, questi gruppi hanno in comune una forte identità nazionale, che ostentano con orgoglio, uno sguardo critico nei confronti del governo Thatcher, testi pervasi da impegno civile, e un approccio selvaggio e barrricadero alle composizioni, che spesso rielaborano, in chiave rock, le influenze folk del paese di provenienza.
Formatesi a Dunfermline nel 1981, i Big Country, capitanati da Stuart Adamson (cantante e chitarrista proveniente dagli Skids, che poi morirà suicida nel 2001, a causa di una forte depressione dovuta anche all’abuso di alcol), esordiscono due anni dopo con The Crossing, un disco che fa gridare al miracolo la stampa, per l’autenticità con cui trovavano coesione le istanze post punk del momento e la grande tradizione musicale scozzese, e che ottiene anche un buon riscontro commerciale, grazie a due singoli di facile presa, come Chance e In A Big Country. In cabina di regia, c’è Steve Lillywhite, uno dei produttori più importanti del decennio, che, guarda caso, aveva già collaborato con gli U2 nella stesura dei primi tre album (Boy, October e War), e che metterà mano anche nei primi tre lavori della band scozzese. Dopo The Crossing, infatti, produce anche Wonderland, Ep con solo sei brani, che ha il merito di consolidare la crescente fama dei Big Country, scalando le classifiche nazionali con la title track, uno dei classici del repertorio di Stuart Adamson e soci.
Il successivo full lenght, Steeltown (1984), apre ai Big Country le porte del successo internazionale, e se gli accenti si spostano più sul rock che sul folk, il livello qualitativo delle canzoni rimane però straordinariamente buono. Lo scarto nei confronti dei due precedenti episodi è, però, connotato anche da un’impostazione più decisamente virata verso il politico e il sociale: “il grande paese” e “la terra delle meraviglie” non ci sono più, e sulle highlands, sulla natura aspra, selvaggia e incontaminata, che resta nello sfondo come monito, incombe la “città dell’acciaio”, crudo quadro iperrealista della Scozia anni’80, paese la cui identità culturale viene fortemente compromessa dalle politiche vessatorie dell’invasore inglese.
Il disco, che trasuda puro orgoglio nazionalista (strano: nessuno dei componenti della band è scozzese di nascita) e di classe (la working class è al centro della narrazione), inanella un filotto di canzoni dure, gagliarde e sanguigne, che si vestono dell’epica di chitarre che possiedono lo stesso suono (clamorosamente in Tall Ships Go e Where The Rose Is Sown) delle cornamuse, elemento iconico della tradizione popolare scozzese, e che spingono verso una sorta di chiamata alle armi, un serrare le fila identitario contro il depauperamento etico, sociale, culturale del paese.
Un suono denso, corposo, fortemente chitarristico (ancora figlio in qualche modo delle istanze punk: ascoltare il riff arrembante di The Great Divide), che trova i suoi tratti distintivi, però, anche nella voce monocorde di Stuart Adamson, il cui timbro sembra evocare la malinconica accettazione di un destino segnato, dalla batteria tonitruante di Mark Brzezicki, e dai drive di basso di Tony Butler, talvolta martellanti (Where The Rose Is Sown), talvolta gommosi (The Great Divide), in altri casi, accarezzati e liquidi (Girl With Grey Eyes).
Non ci sono trucchi né inganni, Steeltown è un disco combattente, che diluisce frustrazione e disillusione nel carburante nobile della rabbia: la band si schiera apertamente e prova empatia per la classa operaia (“At the end of everything finally the dream has gone I've nothing left to hang upon in a steeltown” da Steeltown), riflette sullo stallo sociale e lavorativo del paese (East Of Eden), confonde, esaltando e condannando l’eroismo di chi combatte per la propria terra (l’epos battagliero di Where The Rose Is Sown, compensato però dalla tensione antimilitarista di Come Back To Me), eccita gli animi alla speranza con la danza celtica di Rain Dance e snocciola numeri da jam band nella travolgente Just A Shadow, arroventata dal tiro incrociato di chitarre usque ad finem.
Da questo condensato sferragliante di brani che non tirano mai il fiato, emerge, inaspettato, il passo lento di Girl With Grey Eyes, virile ballata dedicata a una sconosciuta ragazza dagli occhi tristi, attraverso la quale Adamson scioglie i grumi della rabbia militante nel liquido amniotico di un’inusitata vena poetica (I only see those sad grey eyes, I only hear you singing). Una canzone che distilla emozioni con l’alambicco della nostalgia, che evita ogni edulcorazione, e sceglie la strada dello sguardo fermo di chi sa che il proprio amore è destinato comunque a vincere (Oh Be My Woman and I Will be Your Man, Like I Know I Can, If You Let Me, Just Fill My Heart And I Will Fill Your Soul).
Con Steeltown si chiude la collaborazione con Steve Lillywhite e anche il capitolo più glorioso della storia dei Big Country, che, dal successivo The Seer (1986) vireranno sempre più verso un suono mainstream, accattivante, che guarda all’America, snaturando però le radici celtiche della band. Adamson, stremato dalla lotta contro l’alcolismo, si ritira dalle scene nel 1999, lasciando in eredità al suo pubblico Driving To Damascus, il disco più americano della band, ma anche il più riuscito da tempo, e un doppio live, Come Up Screaming (2000), che celebra i momenti migliori di una carriera mai all’altezza dei primi anni. La band si rifonderà nel 2010 con Simon Hough alla voce e darà alla luce il prescindibile The Journey (2013), acuendo nei fan la nostalgia per la perdita prematura di Stuart Adamson.