Steve Hackett è da sempre, tra tutti i membri della galassia Genesis, quello che si è assunto il compito di preservare l’eredità del periodo “Prog” della formazione britannica, che nello specifico copre non solo i lavori realizzati con Peter Gabriel, ma anche i successivi A Trick of the Tail e Wind & Wuthering, gli ultimi due col chitarrista ancora in formazione.
C’è chi lo accusa di portare in giro quella che di fatto sarebbe niente più che una Tribute Band, ma la realtà è un po’ più complessa: è certamente vero che dall’avvio del progetto Genesis Revisited la sua visibilità è aumentata, così come il pubblico presente ai suoi concerti; dall’altra parte, le scalette di ogni tour prevedono sempre una cospicua sezione dedicata ai suoi lavori solisti, che sono ormai impossibili da contare (il primo, Voyage of the Acolyte, è del 1975) e che, pur mancando i capolavori e non aggiungendo nulla di nuovo a quanto fatto con la sua band madre, si sono tuttavia sempre mantenuti su livelli qualitativi più che apprezzabili.
Proseguendo con il ciclo degli anniversari, dopo le celebrazioni di Foxtrot di due anni fa, tocca ora a The Lamb Lies Down on Broadway, il concept album che pose fine all’era Gabriel e che gli stessi Genesis, in occasione del cinquantesimo dall’uscita, stanno per ristampare con un nuovo remastering e con l’aggiunta di un concerto da tempo in circolazione come bootleg.
Da parte sua, il carrozzone Steve Hackett arriva dalle nostre parti quando è già fuori da qualche mese il proverbiale CD/Blu Ray del tour (ne esce uno ogni volta e sono sempre prodotti curatissimi, anche se le scalette necessiterebbero di essere maggiormente variate), registrato durante una data alla Royal Albert Hall di Londra. Sappiamo dunque in parte quello che ci aspetta anche se, come vedremo, nel corso di questa leg sono state introdotte alcune leggere variazioni.
Sono sette le date nel nostro paese, testimonianza ulteriore di un rapporto privilegiato che dura sin dagli esordi dei Genesis (che, è storia nota, furono apprezzati in maniera consistente prima in Italia che in Gran Bretagna), e a questo giro compaiono anche location affascinanti come lo Sferisterio di Macerata o la Piazza dei Signori di Vicenza.
La prima data è a Milano, nella comodità del Teatro Arcimboldi: affluenza ottima, nonostante il mancato sold out, col solito pubblico di età elevata e molto poco generalista, tra fan dei Genesis e amanti della vasta galassia Progressive Rock.
L’inizio è affidato a un trittico dell’ultimo The Circus and the Nightwhale, uscito a febbraio dello scorso anno, un disco privo di sussulti ma che risulta tuttavia sufficientemente ispirato. “People of the Smoke” è cantata dallo stesso Hackett ed ha un piglio anthemico che è ideale per dar via al concerto; “Circo Inferno” è organizzata su una coralità potente e mette in luce l’ottimo livello di impasto vocale, nonché il pregevole lavoro delle tastiere; “These Passing Clouds” è una strumentale che fa salire in cattedra il tocco sopraffino e le intuizioni melodiche del chitarrista. La band che lo accompagna è sempre la solita, di livello stellare: Roger King (tastiere), Felix Lehrmann (batteria), Rob Townsend (sax, flauto e percussioni), Jonas Reingold (basso, noto anche per la sua collaborazione coi Flower Kings) ed ovviamente Nad Sylvan, tra le voci più affascinati del mondo Progressive, oltretutto fresco d’uscita del nuovo Monumentata.
Musicisti eccezionali se presi singolarmente, ma il fatto di suonare insieme da tempo dà loro una marcia in più e garantisce sempre performance coinvolgenti e al limite della perfezione.
Eccezionale anche il gioco di luci, coloratissime e costantemente in movimento, con continui cambiamenti di setting per ogni brano, un fattore niente affatto secondario che ha reso ancora più godibile lo show.
La prima parte è incentrata sul repertorio solista di Hackett, con classici onnipresenti come “Everyday” (meraviglioso come sempre il gioco di chitarre e sax del finale) e “Shadow of the Hierophant”, brani più recenti come “The Devil’s Cathedral”, una “A Tower Struck Down” dove Townsend fa il bello ed il cattivo tempo, innestando robuste dosi di Jazz e con un solo di basso dove Reingold si accattiva il pubblico accennando al tema de Il padrino. Da ultimo, “Camino Royale” è un altro brano monumentale che beneficia di un’esecuzione eccellente, dove tutti gli elementi in gioco vengono valorizzati in pieno: senza dubbio una delle cose migliori del concerto.
Con il repertorio infinito che si ritrova, è un peccato constatare come le scelte siano bene o male sempre le stesse: detto questo, il primo set è stato impeccabile e, a quanto pare, ha accontentato tutti.
Pausa di 25 minuti francamente superflua (ma probabilmente necessaria per musicisti che hanno ormai una certa età) e poi tocca al “festeggiato”. Qui ci sarebbe da fare un discorso un po’ più ampio: un’opera di tale complessità, con anche una componente visiva importante, sarebbe senza dubbio difficile da eseguire integralmente, e posso capire che la sua durata abbia in qualche modo fatto desistere la band, conscia che difficilmente ci sarebbe poi stato spazio per altro.
È dunque per certi versi ragionevole che si sia optato per alcuni momenti selezionati, tra cui peraltro hanno figurato diversi brani (la title track, “Fly on a Windshield”, “Carpet Crawlers”, “Broadway Melody of 1974”) che normalmente trovano spazio nella tipica setlist del chitarrista. Inutile quindi dire che mi sarebbe piaciuto molto di più che questa ricorrenza si tramutasse in un’occasione per uno spettacolo diverso, in cui per una volta venisse recuperato in toto un disco seminale, che non avrebbe altro modo di beneficiare di una resa live (se non da parte delle varie cover band che ci sono in giro). Resta comunque che i 40 minuti offerti hanno detto la loro, e che sentire episodi come “The Chambers of 32 Doors”, “The Lamia” e “It” non è stata senza dubbio un’esperienza da buttare.
Terminata questa parte per così dire “obbligata”, il programma prevede una piccola variazione rispetto alla prima parte del tour, vale a dire l’esecuzione di “Supper’s Ready”, probabilmente il pezzo più rappresentativo dei Genesis di Peter Gabriel, nonché la cosa migliore che potrebbe capitare di ascoltare da parte di questo collettivo. Dopo questi 25 minuti ad altissima intensità tecnica ed emotiva, c’è spazio ancora per due bis, ed anche qui si pesca sul sicuro: “Firth of Fifth” e “Los Endos” risultano acclamatissime dal pubblico e fatte oggetto di un’animata partecipazione.
Gli applausi scroscianti che arrivano alla fine non sono altro che il dovuto riconoscimento per un concerto ancora una volta spettacolare, da parte di un artista che, per quanto sia legittimo discuterne, ha scelto di portare in scena una parte della storia della musica che non so per quanto tempo potremo ancora sentire da qualcuno che ha contribuito a scriverla in prima persona.
Aspettiamo il prossimo tour, convinti che non passerà molto. Nel frattempo, date un’occhiata al calendario e cercate di non perdervi i prossimi sei concerti.