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SPEAKER'S CORNERA RUOTA LIBERA
09/06/2025
Live Report
Steven Wilson, 08/06/2025, Auditorium Parco della Musica, Roma
Steven Wilson arriva a Roma e, se avreste potuto venire al concerto e non lo avete fatto senza un valido motivo, potete anche iniziare a mordervi i gomiti. Qui il racconto di un concerto sospeso tra nichilismo e speranza, fluttuazioni cosmiche e computer quantici; un vortice di suoni e colori unito alla maniacale perfezione sonora della band.

“Ah, vai a vedere Steven Wilson? Non farti venire il torcicollo a furia di stare con la testa voltata all’indietro”.

Di norma mi fido delle sentenze emesse dal mio amico Luca, super esperto di ogni genere musicale sia stato partorito sulla terra compresi (credo) quelli ancora da inventare. Ma stavolta ha torto? Lo scopriremo.

Nel frattempo, spendiamo giusto due parole sul personaggio che sto per ascoltare. Steven Wilson viene definito come uno dei musicisti più innovativi e influenti della scena musicale contemporanea. Personalmente sono contrario a dare giudizi definitivi (su tutto) per cui preferisco smussare dicendo che sicuramente è un raffinatissimo compositore e mescolatore di generi (oltre al buon vecchio prog, in repertorio sfoggia l’alternative, l’elettropop e la musica sperimentale in genere, qualunque cosa voglia dire ciò), caratteristica che non gli ha impedito di consolidare un sound piuttosto riconoscibile. Gli piace la musica complicata (come ha ribadito con notevole autoironia durante il concerto) ma sa fare anche canzoni che durino meno di quattro minuti (ibidem).

Sotto il profilo del lavoro artistico è uno bulimico, ed io adoro gli smodati affamati di musica. Suona una decina di strumenti, si è  diviso fra i Porcupine tree e i No-man (e altri),  con una carriera solistica di successo ed ha trovato il tempo per fare i remix di alcuni capolavori del progressive (Aqualung, Close to the edge, In the court of the crimson King) nonché, forse nottetempo, di produrre alcuni artisti che con lui hanno raggiunto un buon successo e che con il progressive hanno poco a che fare (il metallo di Opeth e di Mikael Åkerfeldt e  una specie di pop rock da tardi anni 80 degli Anathema). Gli si riconosce, anche da chi non lo ama, una maniacale attenzione ai dettagli e un eclettismo sofisticato. Insomma: tutto molto bello e adatto ai miei gusti. Però, dato che anche nelle agiografie un piccolo però c’è sempre, la vocina di Luca che suggerisce “Va bene: ma dimmi cosa ha inventato di nuovo” non può essere derubricata a rumore di fondo.

 

Il dubbio mi si insinua maligno: Luca ha ragione? Sto per partecipare ad un concerto in cui nulla di nuovo (e pericoloso) può accadermi? Sprofonderò nelle orme alte lasciate da giganti per farmi rassicurare da suoni moderni, si, ma che non usciranno da confortevoli binari tracciati oltre mezzo secolo fa? È questo che vuole dire Luca?

Potevo pensarci prima a ragionare su questa possibilità, magari lo avrei fatto mentre me ne stavo a casa mia e ci avrei potuto speculare di più. Ma adesso sono in fila per gli accrediti e mi rendo conto che la sto bloccando. Col biglietto in mano un'occhiatina ai posti e soddisfazione immediata. Proprio come piace a me, a metà platea, posizione centrale da dove di solito l’ascolto è il migliore possibile.

Quando mi siedo manca veramente poco all’inizio e, prima che le luci si spengano, ho giusto il tempo di dare un’occhiata alla fauna. Raramente ho visto tanta intergenerazionalità. Si va dai diciotto anni agli over sessanta abbondanti. Più di così l’ho visto forse a qualche concerto dei Pooh o di Baglioni, e questo non è un difetto.

Mi balza all’occhio un’altra peculiarità del popolo pagante, e cioè una certa varietà nelle t-shirt celebrative che indossa, ovviamente frutto delle molte forme espressive di questo artista. Ho visto maglie dei tour dei Porcupine Tree chiacchierare con quelle degli Opeth, ma pure dei Pink Floyd (e ci sta) e financo dei Led Zeppelin. Mi piace tutto, anche se alla fine il premio vintage della serata per me va a quella indossata da un uomo adulto in cui campeggiava un Sony Walkman del 1977. Postilla finale: premio della critica a diverse magliette di Star Wars mentre non ne ho vista nessuna della NASA: peccato perché sarebbero calzate a pennello.

 

Avviso preliminare per coloro i quali stanno leggendo senza aver ascoltato The Overview, il lavoro che occuperà la prima parte del concerto: non fidatevi ciecamente del vostro anziano recensore. Fermate la lettura e dedicategli almeno un paio di ascolti.

Fatto?

Bene.

Monito: se avreste potuto venire al concerto e non lo avete fatto senza un valido motivo, potete anche mordervi i gomiti.

 

Il concerto inizia appunto con le suite di The Overview,  lavoro in cui Wilson fornisce la sua lettura di una probabile dissoluzione della nostra società e della catastrofe non rimandabile che colpirà il pianeta, estendendo lo sguardo nello spazio e nel tempo alla ricerca di una possibile riconciliazione. Nello stesso momento scorrono sullo schermo alle spalle della banda anche immagini rassicuranti, in un'alternanza che non risulta un semplice contrappunto del discorso musicale, ma lo completa efficacemente,  riuscendo a generare quei sentimenti che probabilmente Wilson si aspettava.

Empatia, paura, e infine ansia sono le cose che si provano nel primo quarto d’ora, tempo che basta all’artista per strapparci dalla dimensione terrena facendoci fluttuare in questo spazio che potrebbe essere cosmico (ricorda qualcuno?) ma anche di dimensione lillipuziana, tutto contenibile in un computer quantico. Il mondo brucia e così i suoi abitanti che sfilano ripresi di spalle, senza volto, protagonisti muti e colpevoli di un destino forse inevitabile.

 

Più la narrazione avanza più le immagini diventano enigmatiche, sospese fra nichilismo e speranza. Il viaggio di uno e di molti si frammenta e si ricompone continuamente in un vortice di suoni e colori che certamente deve parecchio alle sperimentazioni psichedeliche, e che con Wilson assume però un significato se non completamente nuovo certamente molto evoluto. Indubbiamente l’effetto c’è e funziona, e se emerge qualcosa di già visto e sentito il fatto è assolutamente perdonabile, in quanto funzionale alla conquista di un confine nuovo che mette nel conto il pagamento di un tributo al passato. Infatti emergono con chiarezza tutti i debiti culturali prima ancora che musicali verso i Pink Floyd, specialmente quelli di Animals, e qualcosa di Thick as a brick. Ma di questo so che molto si è parlato per cui non aggiungo altro.

Noto soltanto la maniacale perfezione della band che, letteralmente, non sbaglia non dico una nota, ma nemmeno un accento di questo ordito musicale che spaventerebbe qualunque virtuoso.

 

Ecco, come notazione sintetica, i primi oltre quaranta minuti di concerto se ne vanno lisci senza che si possa dire che il perfezionismo virtuoso divori il pathos della musica. Se proprio vogliamo fare un piccolo appunto, la scena finale dell’alieno che rinasce da un cosmo in esplosione, viene trascinato per infiniti mondi ed alla fine ritorna su un pianeta (la terra? Forse) e vede la vita che rinasce sotto forma di piantina, ecco questo mi è sembrato un po’ troppo Wall-e. E siccome Wall-e non si tocca, forse avrei usato un altro espediente. Ma sono paturnie mie, lo riconosco.

Poi però succede qualcosa. Wilson raccoglie la meritata ovazione del pubblico e ci avvisa sornione che “It’s Just the beginning”. Dovevo farmi venire qualche sospetto ma lì per lì non ci faccio caso. Ci dice anche che avremo venti minuti di pausa, che alla fine saranno oltre trenta. Troppi in generale, ma troppi soprattutto per il mantenimento di quel fil rouge che avrebbe dovuto legare le due parti del concerto e che invece si sfilaccia presto.

 

La seconda parte del concerto, infatti, cerca di ricollegarsi alla prima proponendo "The Harmony codex" dall’omonimo album del 2023, e sembra voler riallacciare quel filo che dicevo sopra. Capita invece che, probabilmente nell’intento (lodevole, ma come si sa di buone intenzioni è lastricata la via dell’inferno) di presentare una panoramica il più possibile ampia della sua produzione, la scelta dei brani che seguono a me sia sembrata un po’ casuale.

Se con "Home invasion" si alza subito l’asticella verso un sound più familiare ai fan (a proposito, solo a me la parte ritmica sembra debitrice di "Watcher of the skies" dei miei amati Genesis?) la decisione di metterla in fila con "Regret #9" e un paio di brani dei Porcupine dei primi 2000 di certo avrà appagato la voglia di “tiro” di molta parte del pubblico ma a me è suonata forzata. Nulla di definitivamente drammatico, sia chiaro. Solo un pizzico di delusione per un concerto che avrebbe potuto svilupparsi in maniera più compatta (non mi viene un altro termine) e invece un po’ si è smarrito in questa seconda parte che peraltro è durata parecchio di più della prima.

 

Che altro? Ah, si. Mi ha divertito il siparietto in cui Wilson ci dice che ama la musica complicata fatta da brani di venti minuti, con relativo sondaggio fra il pubblico che ovviamente concorda, subito dopo smentito dalla proposta di "Abandoner" che di minuti ne dura quattro, così come la scelta di suonare scalzo (serve a piedeggiare meglio i pedali, dice).

Il concerto va avanti così, un po’ pletorico, proponendo anche una serie di soli dei musicisti (che non posso non citare per la loro enorme perizia (Craig Blundell alla batteria, Nick Beggs al basso, Adam Holtzman alle tastiere e Randy Mc Stine alla chitarra) pratica che credevo fosse scomparsa da anni.

Mentre guadagno l’uscita dopo l’inevitabile bis sbaglio strada e mi trovo in un non luogo completamente vuoto. Il parcheggio D e la sua desolazione mi ispirano l’ultimo commento.

Stupendo concerto, poteva essere un evento e per un pizzico non lo è stato sul serio.

Sapete quale è la cosa peggiore? Che mi toccherà dire a Luca “Avevi torto: vabbè diciamo quasi torto”.