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RE-LOUDDSTORIE DI ROCK
09/05/2022
Gary Moore
Still Got the Blues
La ricerca della vera soddisfazione, il tendere infinito alla felicità, poiché si è coscienti di quanto sia impossibile raggiungerla con facilità, fungono da pungolante stimolo per vivere nuove straordinarie avventure. E’ così che Gary Moore, uno dei più grandi chitarristi di tutti i tempi, per l’ottavo album abbandona la formula fino a quel momento vincente che coniuga al rock le sue sfumature più hard e torna all’antico amore viscerale per il blues, da cui era scoccata la scintilla, era sgorgata la fonte della sua vita artistica. Still Got the Blues è un’opera magica, divina, moderna, dove il musicista irlandese si rimette in gioco e riesce a esprimere i moti del proprio animo, i sentimenti e le emozioni in tutte le loro delicate sfaccettature grazie al suono dell’adorata Gibson. Un suono indimenticabile.

Quando una copertina, nella sua completezza fronte-retro, e un titolo raccontano e spiegano tutto meglio di qualsiasi altra cosa. Riguardiamola, analizziamola con attenzione, ricordando che l’idea, il concept dell’artwork è stato ingegnato proprio dall’artista.

La tenerezza dell’immagine di un ragazzo sui dieci-dodici anni nella sua cameretta, nell’atto di strimpellare una chitarra elettrica, totalmente concentrato sullo strumento fino a sembrare un poco atterrito, tutt’altro che sciolto: nella stanza l’amplificatore Marshall è in evidenza in basso a sinistra, poi giacciono sparsi alcuni vinili, s’intravvede sul letto il capolavoro di John Mayall e i Bluesbreakers con Eric Clapton e a terra, fra i tanti, un disco di B.B. King, mentre sulle pareti spicca un poster di Jimi Hendrix.

La facciata posteriore è altrettanto eloquente e chiude il cerchio. Tanto tempo è trascorso, e adesso, in un luogo simile, vi è Gary Moore adulto, ancora intento a suonare, ma ora in modo fluido, infatti lo sguardo può permettersi di puntare un -più moderno- CD, sempre sul letto, come nella foto precedente. Si tratta nuovamente dello storico Beano Album e se ne notano diversi sparpagliati sul pavimento, di sicuro è presente A Hard Road dei rinnovati Bluesbreakers, nell’era di Peter Green - a cui, tra l’altro è dedicata l’opera -.

Il sogno è diventato realtà, dalla finestra si notano le scritte di un hotel, il giovane ne ha fatta di strada diventando adulto, è un professionista e vaga in tour di città in città, ma nulla è cambiato, vi sono sempre gli stessi maestri ispiratori, poiché Moore, come si evince dal titolo, “ha tuttora il blues”, anzi lo comunica con maggior consapevolezza, in seguito a un percorso che l’ha condotto alla piena maturità artistica.

Dopo sette album solisti di chiaro stampo “heavy rock”, ecco il ritorno ai bei tempi che furono, a quella folgorazione che era solo calata di intensità, ma mai aveva abbandonato nell’excursus musicale questo estroso personaggio, nelle sue proficue avventure in chiave hard ai confini con il metal insieme agli Skid Row e gli indimenticati Thin Lizzy, senza scordare le incursioni jazz fusion con i Colosseum II, il progetto G-Force e la sorprendente collaborazione con Greg Lake.

 

"Luglio 1966. Ricordo di essere andato a casa di un conoscente una domenica pomeriggio. Non lo dimenticherò mai perché era una cosa così importante per me. Aveva l'album Beano e un sacco di gente ne parlava. Era la prima volta che qualcuno sentiva una Les Paul con un amplificatore Marshall. Il mio amico mise il brano di apertura, All Your Love, e cambiò la mia vita in un secondo, fu un'incredibile epifania. Era solo un piccolo stereo, ma la chitarra urlava dalle casse. Non avevo mai sentito una chitarra suonare così alla grande e così appassionata, piena di energia ed emozione".

 

Proprio "All Your Love" fa parte dell’ispirata scaletta della “CD release” dell’epoca: un classico di Otis Rush riportato alla luce da Mayall e Clapton ed ora rivisitato con furore da Moore. La sua Gibson domina, ben contornata dall’hammond di Mick Weaver. Ma andiamo con ordine. "Moving On" è un perfetto opener, deciso, vibrante, simbolo del mutamento in atto pure nel testo, con tanta slide che strizza l’occhio a Elmore James e prepara alla prima sorpresa, "Oh Pretty Woman", lo standard di A.C. Williams innaffiato da un diluvio di chitarre, grazie alla presenza anche di un vero re, di nome e di fatto, Albert King. Un’altra cover, la rumorosa "Walking By Myself", stavolta di Jimmy Rodgers, evidenzia il bending del funambolo di Belfast. Frank Mead abbandona per un attimo l’amato sax per regalarci un camion carico di energia con l’armonica, mentre i maestri del ritmo Andy Pile e Graham Walker picchiano duro su basso e batteria.

 

So long, it was so long ago
But I've still got the blues for you”.

 

Arriva poi il momento della più profonda commozione, quasi inaspettato dopo un inizio così folgorante. Questa è la tormentata bellezza di chi vive e desidera raffigurare con sincerità l’altalena di emozioni che offre l’esistenza, e conserva latente dentro l’anima quel pizzico di nostalgia e infelicità, pronto ad emergere pure nei frangenti maggiormente gioiosi, una sorta di preparazione al dolore. Dolore che sgorga nella sua canzone più famosa, più struggente, con quel “solo” mortale che fa lacrimare la Les Paul e chiunque abbia provato mal d’amore per almeno una volta.                                                                                                                    

La disperazione si mescola alla tenerezza in una storia che parte dai lidi della sofferenza,  Era così facile dare via il mio cuore, ma ho scoperto nel modo più duro che c'è un prezzo da pagare, che l'amore non era mio amico” per veleggiare poi verso l’oscuro orizzonte della rassegnazione, tuttavia colorato e profumato di nostalgia, reso meno tenebroso grazie alle memorie dei piacevoli momenti passati, da cui affiora il blues, Anche se i giorni vanno e vengono, c'è una cosa che so, ho ancora il blues per te”. 

L’interpretazione vocale, il piano e le tastiere, accarezzati in modo lacerante da Nicky Hopkins e Don Airey, con quest’ultimo anche sublime arrangiatore degli archi, concorrono ad alimentare l’atmosfera malinconica della title track: i sei minuti volano via in un istante, ma non vi è un attimo per riprendersi, sovrastati da "Texas Strut", omaggio agli ZZ Top, a quella forza della natura di Stevie Ray Vaughan con i suoi Double Trouble, e "Too Tired", dal repertorio di Johnny “Guitar” Watson, nel quale fa capolino un altro “professore” della sei corde, The Ice Man, al secolo Albert Collins, per una tempesta di assoli tra lui e Gary.

 

“Non pensavo realmente che sapesse suonare. Credevo fosse semplicemente un altro ragazzo intento a buttarsi nel mondo del blues…però poi l’ho udito esibirsi dal vivo, lanciarsi nelle cose più incredibili. Perbacco - mi sono detto- ma da dove diavolo è saltato fuori?” (Albert King)

 

"King of the Blues" è impregnata fino al midollo di quel sound caratteristico della Stax, con una sezione fiati - Raul D’Oliveira, Nick Pentelow, Nick Payn e il già menzionato Mead - da urlo, e cita Albert King, musa ispirante dell’intero progetto e non solo, dunque, special guest dell’album. Infatti la seguente "As the Years Go Passing By" prosegue tale tributo, con questo classico dei classici “coverizzato” a più non posso, ma imprescindibile qui in tracklist per rievocare quel Born Under a Bad Sign pubblicato nel 1967 dal bluesman americano, un LP che stregò il giovane Moore e i Cream. La “notturna”, lancinante "Midnight Blues" chiude il trittico di pezzi, in qualche modo influenzati da Albert, in maniera elegante, dimostrando che la musica del diavolo può essere modernizzata senza perdere le peculiarità della tradizione; se ne utilizzano le radici per far crescere nuove diramazioni e consentire un più ampio respiro.

Still Got the Blues ha ancora alcune frecce nel suo arco, a testare la vitalità e varietà. Nessuno si aspetterebbe "That Kind of Woman", un morbido pezzo di George Harrison, che accetta pure di fare una comparsata ai cori, slide e ritmica, trasformato in un torrido rock and roll, prima della conclusione lasciata all’allegra esecuzione di "Stop Messin’ Around", giusto per chiudere in bellezza con una canzone di Peter Green.

L’edizione rimasterizzata del 2002 aggiunge in scaletta cinque tracce, tra intriganti riletture di brani noti - su tutti "The Sky Is Crying" - e composizioni autografe, aggiungendo prelibata carne al fuoco, una fiamma da sempre bruciata dentro, ardente patrimonio sacro di un malinconico eroe disperato, che si immerge in ciò da lui più amato, alla ricerca costante della compiutezza.  Questo permane per sempre il suo capolavoro, che gli regala stima, successo commerciale e notorietà, e rinverdisce l’adorazione per il blues, spingendo verso quel genere una nuova generazione di chitarristi estasiati dalle sue esibizioni. After Hours (1992), Blues Alive, dal vivo (1993), Power of Blues (2004) e Close As You Get (2007) rimangono sicuramente da ricordare tra le tante pubblicazioni, alle quali merita di essere aggiunto l’eccellente doppio DVD The Definitive Montreux Collection.

 

Sono ormai passati più di undici anni dalla morte di Gary Moore, deceduto nel sonno per un attacco di cuore nel 2011, probabilmente in seguito ad una nottata all’insegna dell’eccesso di alcool.

Un’anima in pena, vittima di problemi irrisolti, fra cui l’eccessiva tendenza al perfezionismo e un’intricata sfera sentimentale. Un uomo e un artista incredibile, con un talento incommensurabile, un’intelligenza e una curiosità rare. Un uomo prostrato dall’infelicità che, dopo averne data tantissima, cercava bellezza ovunque intorno a sè, perché alla fine, purtroppo, non ne aveva più dentro al cuore.