Cerca

logo
REVIEWSLE RECENSIONI
21/03/2018
Stone Temple Pilots
Stone Temple Pilots
Il tempo però passa e così, ad 8 anni di distanza dall'ultimo full lenght a nome Stone Temple Pilots, eccone il seguito: un nuovo inizio, con un nuovo cantante, uscito da audizioni infinite
di Alessandro Raggi

Il 3 Dicembre 2015, solo e depresso all'interno del suo tour bus, se ne andava Scott Weiland. L'ex cantante degli Stone Temple Pilots, da cui fu licenziato nel 2013 proprio a causa della sua dipendenza dalle droghe e quindi della sua inaffidabilità, si trovava nel mezzo del Minnesota, a Bloomington per la precisione, per promuovere il suo terzo disco solista, in un tour contraddistinto da poca fortuna in quanto a spettatori tanto da fargli ammettere, in una delle interviste che precedettero il triste evento, che la via dei concerti era necessaria per poter rimettere in attivo le finanze.

 

A parere di chi scrive, Scott Weiland rimarrà una delle ugole d'oro uscite dagli anni Novanta, insieme ai compianti Layne Staley e Cris Cornell, e con i sopravvissuti (per fortuna) Eddie Vedder ed Adam Duritz.

 

Se però Weiland senza i fratelli De Leo (fondatori degli STP) se la passava alquanto male, lo stesso dicasi per gli stessi Stone Temple Pilots che, nonostante avessero assoldato per un Ep Chester Bennington (anche lui, tristemente deceduto) non si sono mai più azzardati di far uscire un album a nome Stone Temple Pilots. Il perchè è facilmente intuibile: Scott Weiland, i Brothers DeLeo (chitarra e basso) ed Eric Kretz alla batteria erano un tutt'uno. Sui riff colti e raffinati nonostante le distorsioni dei musicisti, Scott Weiland sapeva dipingere armonie vocali e testi unici: prima ancora della voce dunque il talento di Weiland stava nel trasformare in diamante il lavoro di qualcun altro.

 

Il tempo però passa e così, ad 8 anni di distanza dall'ultimo full lenght a nome Stone Temple Pilots, eccone il seguito, anch'esso di fatto senza titolo. Un nuovo inizio, dunque, con un nuovo cantante, uscito da audizioni infinite. Il prescelto è risultato essere Jeff Gutt, tra l'altro uscito dall'X-Factor americano. I fan (come il sottoscritto) tirino subito un sospiro di sollievo: Gutt è bravo, ha una voce bellissima ed è il sostituto più vicino a Weiland che si potesse trovare. Però, ovviamente, non è Weiland. Per cui tutta la recensione del disco vive di questo giudizio: la maestria del trio Dean De Leo/Robert De Leo/Eric Kretz è assolutamente impeccabile; Gutt fa un lavoro impressionante dietro al microfono; le canzoni girano che è un piacere; purtroppo la zampata del talento, il ritornello che ci farà cantare a squarciagola o i passaggi istrionici di Weiland non ci sono più e non ce li ridarà più nessuno.

 

Andiamo per ordine. L'apertura è affidata a "Middle of nowhere" ed è davvero un inizio con i fuochi di artificio. Riff, riff ed ancora riff ed è veramente l'unico brano in scaletta in cui Gutt ha delle intuizioni degne del predecessore. La band è in pieno tiro, un treno ad alta velocità con un arrangiamento da apprezzare ad alto volume. Con questo inizio nulla è precluso. Bella, bella, bella.

 

Con "Guilty" ritroviamo gli Stone Temple Pilots dal rock più rotondo, molto vicini a Shangri-La Dee Da, solo che c'è un po' di confusione ed alla fine resta in mezzo al guado. Meglio, molto meglio il singolo "Meadow", in cui scopriamo la grande voce di Gutt. Eccoli gli STP che ho tanto amato: il riff è subito riconoscibile, il crescendo è da enciclopedia del rock è l'assolo è, come sempre pazzesco. Tutto perfetto, tranne forse per quel "You'll be mine Clementine 'cause I can't live without you" che Scott non si sarebbe mai lasciato sfuggire, ma tant'è, di roba così in giro, siamo sinceri, ce n'è poca.

 

Se"Just a little lie" gioca su tempi sincopati (cosa che agli Stone Temple Pilots è sempre venuta bene), con "Six Eight" si torna a livelli altissimi e la mente va dritta a qualcosa degli Alice in Chains. Siamo nel pieno del disco ma l'impressione è che il meglio debba ancora arrivare. Ed infatti ecco una sequenza da urlo: la dolcezza acustica di "Thought she'd be mine" è coinvolgente e la scelta delle parole si fonde sulla musica come un tutt'uno. La nuova "Sour Girl"? Forse non si arriva a tanto, ma la strada è quella. Subito dopo un riffone introduce un crescendo di rullante e poi tutti sulle montagne russe per "Roll me under". Anche qui siamo tornati ai (bei) tempi di N°4 e l'utilizzo compulsivo dei piatti è un deja-vu di cui sentivo l'esigenza da tempo.

 

Siamo alla traccia 8 ed, incredibilmente, arrivano i Doors. Si, avete letto bene, perchè con "Never Enough" sembra di sentire quei blues tipici rifatti in chiave moderna. Gutt è veramente incredibile, ed anche se l'interpretazione è da plagio non gli si può negare che sta scimmiottando Morrison....

 

Ancora un click in avanti del lettore ed ecco "The art of letting go". Ecco gli accordi jazzati di Dean De Leo, uno che disco dopo disco migliora come il buon vino. La canzone è bellissima nonostante il giro armonico complicato, ma il ritornello vi farà fare pace col mondo. Voto alto, mi rimane un tarlo: cosa avrebbe fatto Scott con una base musicale così? Inutile andare avanti col ragionamento.

 

Mancano ancora tre canzoni all'appello. "Finest hour" è il rock colto che mancava, quegli accordi bagnati dalle distorsioni che solo Dean sa mettere insieme con tale semplicità. Per coesione, per suoni e per risultato finale la canzone più convincente. La successiva "Good Shoes" parte con un riff Zeppeliano e forse rimane un po' troppo lì, nonostante gli sforzi della band nell'arrangiamento. Un pezzo sotto lo standard STP tirato su grazie al mestiere infinito.

 

Si conclude, come sempre, con un lento. Stavolta è il turno di "Reds & Blues", che si fa difficoltà a paragonare con le canzoni che concludevano i dischi precedenti, basti citarne due: "Atlanta" e "First kiss on Mars"...ok, ci siamo capiti. La canzone gira bene, ma forse manca quell'intuizione.

 

Sono alla fine del disco. Senza girarci troppo attorno: il disco ha una scrittura altissima, i suoni sono perfetti e tutti e quattro sono fantastici. Compratelo perchè di rock suonato così in giro ce n'è poco. Non è giusto nei confronti di Gutt metterlo in competizione con il grande Weiland, anche perchè in fin dei conti gli assomiglia molto ed in tutto il disco è impeccabile. Resta un però....se due delle canzoni citate fossero state scritte quando Scott era in vita, probabilmente il voto sarebbe stato 9,5.

Ma questo cambia poco. Scott mi manchi, ma quaggiù i tuoi compagni mi hanno fatto commuovere di nuovo.