C’è una frase che ricorre in molte delle interviste rilasciate da Elizabeth Stokes a ridosso dell’uscita del quarto album dei Beths, Straight Line Was a Lie: «La progressione lineare è un’illusione». È una dichiarazione semplice, quasi ovvia, ma nel contesto della musica della band neozelandese diventa un manifesto. Perché se c’è una costante nella loro traiettoria, iniziata ormai un decennio fa con l’EP Warm Blood e consolidata prima con l’album di debutto Future Me Hates Me e poi con il suo successore Jump Rope Gazers, è proprio la capacità di trasformare la precarietà esistenziale in canzoni che brillano come gioielli power pop.
Dopo l’exploit di tre anni fa con Expert in a Dying Field, un disco che aveva mostrato il lato più malinconico e riflessivo del gruppo, era legittimo domandarsi come Stokes e compagni avrebbero potuto reinventarsi. La risposta non è arrivata subito: i primi tentativi di scrittura si sono rivelati frustranti, complicati anche dall’impatto degli SSRI (inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina) che la cantante aveva appena iniziato ad assumere. Lungi dall’essere un dettaglio marginale, questo episodio è diventato parte integrante della genesi di Straight Line Was a Lie, un lavoro che affronta senza reticenze i compromessi emotivi della terapia, la difficoltà di ritrovare la propria voce creativa e, più in generale, la sensazione di non poter mai “aggiustare” davvero la vita.
Il risultato è un album che riesce a essere al tempo stesso il più personale e il più universale dei Beths. Lo è perché Stokes racconta i suoi limiti, le sue paure, le sue piccole epifanie quotidiane, ma lo fa con quella miscela di ironia, vulnerabilità e immediatezza melodica che da sempre caratterizza la band. In questo senso, il paragone con i mai troppo lodati Fountains of Wayne è inevitabile.
Come Chris Collingwood e Adam Schlesinger, i principali autori della band newyorchese, anche Stokes costruisce le sue canzoni partendo da un mix di canzoni pop di influenza britannica, produzione lo-fi e testi ironici su lavori senza prospettive. È la vita normale, con i suoi ritmi stanchi e le sue frustrazioni, che diventa irresistibile materia pop. La sua penna coglie la tragicommedia del quotidiano con la stessa lucidità che rese indimenticabili dischi come Welcome Interstate Managers, ma declinata in un linguaggio più intimo, femminile e generazionale.
L’apertura dell’album è quasi teatrale: un falso inizio che porta poi all’omonima “Straight Line Was a Lie”, un brano che unisce l’energia corale tipica del gruppo a versi taglienti come «I thought I was getting better / But I’m back to where I started». È un colpo secco, che racchiude in poche battute il cuore tematico del disco: l’illusione di un progresso lineare, la frustrazione di tornare indietro, la necessità di riconoscere la circolarità dell’esistenza. Musicalmente, la canzone ribadisce la forza dei Beths: chitarre frizzanti, melodie che si imprimono subito, un senso di coralità che trasforma il dolore individuale in esperienza collettiva.
Il singolo “No Joy” è forse il pezzo più rappresentativo dell’intero lavoro. Sostenuto dalla batteria incalzante di Tristan Deck e da chitarre distorte, mette in musica la condizione dell’anedonia, quell’incapacità di provare piacere che Stokes ha sperimentato sia nei momenti più bui della depressione sia sotto l’effetto dei farmaci. Il verso «This year’s gonna kill me / Gonna kill me» è già destinato a diventare un classico del repertorio dei Beths, nonostante (o forse proprio perché) porta in sé un’ironia amara e disarmante. È la fotografia perfetta di come la band riesca a unire il lato oscuro della psiche a un’irresistibile vitalità sonora.
Molti altri brani si muovono su territori meno immediati, più riflessivi. “Take”, per esempio, con le sue venature post punk, esplora territori sonori più spigolosi, mentre “Mother, Pray for Me” riduce l’arrangiamento a un’essenzialità quasi liturgica, con chitarra pizzicata e organo, per raccontare il rapporto distante e complesso che Stokes ha con la madre. È uno dei momenti più vulnerabili del disco, ed è anche la dimostrazione di come il gruppo sappia gestire dinamiche più intime senza mai perdere di vista l’orecchiabilità.
Sarebbe però sbagliato leggere Straight Line Was a Lie solo come un disco introspettivo e cupo. C’è sempre, nei Beths, una vena di umorismo e di leggerezza in controluce. Lo si percepisce nella scrittura, che alterna confessione e sarcasmo, ma anche nelle scelte musicali: cori che alleggeriscono i momenti più pesanti, riff che trasformano la rassegnazione in energia. Il finale con “Best Laid Plans” è esemplare: un brano funk rock con bonghi e chitarre sincopate, che accompagna un testo sull’ennesimo venerdì da affrontare. È come se la band volesse ricordarci che, alla fine, la vita è sempre un compromesso tra fatica e festa.
Rispetto ai lavori precedenti, questo disco segna un salto qualitativo nella scrittura di Stokes. Non solo per la profondità dei temi trattati, ma anche per la maturità con cui riesce a intrecciare autobiografia e dimensione collettiva. Se in passato i Beths erano stati catalogati soprattutto come una band power pop di talento, ora si impongono come narratori privilegiati di una condizione esistenziale che appartiene a molti. In questo senso, di nuovo, la loro affinità con i Fountains of Wayne si fa ancora più evidente: come la band americana, i Beths riescono a trasformare la banalità della vita moderna in arte, senza mai cadere nel cinismo o nella retorica.
C’è un altro elemento che rende Straight Line Was a Lie un lavoro speciale: il processo creativo che lo ha generato. Stokes, spronata da Jonathan Pearce, ha utilizzato metodi inconsueti per uscire dal blocco creativo, traendo ispirazione anche dall’autobiografia On Writing di Stephen King e imponendosi l’esercizio quotidiano di scrivere dieci pagine di flusso di coscienza su una vecchia macchina da scrivere Remington. Questo metodo, apparentemente arcaico, le ha permesso di riportare alla luce memorie, paure e ossessioni che altrimenti sarebbero rimaste sommerse. È un dettaglio che dice molto sull’etica del lavoro della band: l’idea che la creatività non sia un dono spontaneo, ma un esercizio continuo, un processo di manutenzione, proprio come la vita stessa.
In definitiva, Straight Line Was a Lie è il disco che conferma i Beths come una delle realtà più solide e affascinanti della scena indie pop contemporanea. Non perché rivoluzioni il loro linguaggio, ma perché lo porta a una nuova profondità emotiva. È un album che si ascolta con piacere immediato, grazie alle melodie cristalline e agli arrangiamenti brillanti, ma che allo stesso tempo scava, lascia tracce e apre ferite. Insomma, un album che parla di ricadute, di percorsi interrotti, di false partenze, ma lo fa con una grazia rara, trasformando la fragilità in energia condivisa.
Come spesso accade con i dischi particolarmente riusciti, Straight Line Was a Lie non è solo un ritratto dell’artista che lo ha creato, ma anche uno specchio per chi lo ascolta. Perché, in fondo, chi non si è mai sentito di essere tornato al punto di partenza, proprio quando pensava di aver trovato la sua strada? I Beths hanno capito che raccontarlo non solo è possibile, ma può perfino diventare catchy.