La terza fatica discografica dei Nation of Language fa riflettere sul synth-pop, gli “eterni ritorni” dei generi musicali e aperto uno scorcio di memoria su quanto successo ben 40 anni orsono, quindi, come di solito si usa negli articoli scientifici, propongo di seguito l’abstract sulla recensione: chi sarà interessato a leggere solo questa, potrà sorvolare sul resto; chi, invece, è un poco più curioso, potrà inoltrarsi nello “zibaldone” di pensieri generati dall’ascolto che rimandano alla nascita del genere, in quanto non esiste dubbio alcuno che il sound dei Nation of Language sia fortemente emulativo delle sonorità di quel periodo.
Chi già conosce i Nation of Language si rassereni, i tre ragazzi americani restano coerenti col loro percorso musicale, che continua ad utilizzare gli stilemi synth-pop avendo quali propri punti cardinali gli Ultravox, gli OMD (Orchestral Manoeuvres in the Dark), i New Order, i primi Tears For Fears, insomma tutta l’aristocrazia musicale del genere.
Gli amanti del pop sintetico troveranno quindi nell’album delle hit di immediato appeal, si pensi ad esempio a “Stumbing Still”, debitore delle atmosfere del più famoso gruppo della storia di Manchester (e chi ha pensato agli Oasis o agli Stone Roses, peste lo colga!), oppure a “Sole Obsession”, con quel ritmo saltellante oramai marchio di fabbrica di questi ragazzi. Penso ancora alla coppia di brani “Surely I can’t wait” e “Too much enough”, dove i cadenzati ritornelli si avvicinano al lato più commerciale del genere rappresentato, ad esempio, da Howard Jones.
Personalmente, tuttavia ho trovato maggiormente intriganti i brani mid-tempo dell’album, in primis “Weak in Your Light”, dove la sinuosa linea di synth introduce l’ascoltatore in un climax umbratile accentuato dal suggestivo e nostalgico tono vocale di Ian Devaney, oppure “Swimming in the Shallow Sea”, dove al solito set di tastiere e drum machines trovano accoglienza dei riverberi chitarristici di grande impatto.
La cosa interessante dei Nation of Language è proprio questa coesistenza tra il lato ballabile di molti pezzi e la presenza di una nutrita serie di brani con un climax malinconico, così che non penso sia un’esagerazione quando Ian dichiara che durante i loro concerti è possibile vedere sia gente che balla che persone che si commuovono ascoltando i loro testi.
Come promesso nell’incipit, l’ascolto di questo disco fa ritornare alla mente di chi scrive la nascita del genere Synth pop, che prese le mosse nei primi anni Ottanta. Per capire bene la portata della novità introdotta da tale tipo di sound sintetico occorre tornare a quel periodo, dove, per la prima volta, tutte le componenti della musica pop (ritmo, melodia e arrangiamenti) venivano eseguite mediante un unico strumento: il sintetizzatore.
Come al solito la nascita di un nuovo genere risulta essere il frutto di un sentimento dell’epoca e dello sviluppo tecnologico createsi in quel periodo. Non che le tastiere non esistessero anche prima, ma, a partire dai primi anni Ottanta, l’evoluzione tecnologica portò alla realizzazione (con un costo abbordabile) di una serie di macchine analogiche contenute non solo nel prezzo ma anche nelle dimensioni. Se a questo si unisce la commercializzazione di drum machine anche in questo caso abbastanza economiche, si comprende come sia stata possibile la nascita di un nutritissimo gruppo di band che fondava il proprio sound quasi esclusivamente sull’utilizzo delle tastiere e delle batterie elettroniche.
Come sempre accade, alcuni utilizzarono la nuova strumentazione per creare della musica di avanguardia, altri invece scelsero la via più commerciale, e così nacque il synth-pop. Poi certo, ci fu anche chi percorse la via dall’underground al mainstream, come nel caso dei primissimi Human League, quando ancora amavano la sperimentazione (per chi non ci crede si provi ad ascoltare i primi EP, in particolare The Dignity of Labour).
Il problema del synth-pop, però, era e resta la resa live; nel senso che rispetto ad una formazione di rock classico veniva a mancare il fascino del palco, in quanto stare ad ascoltare 2/3 musicisti che sul palco suonano le tastiere, con una gestualità abbastanza minimale, oggettivamente porta a stufarsi rapidamente. La differenza quindi, dal vivo, era anche la presenza (o meno) di una front woman o di un front man che potesse catalizzare l’attenzione degli spettatori, magari adiuvata/o dall’utilizzo della proiezione di diapositive o di video.
E in Italia? Lasciando ad un futuro articolo la negletta Italo Disco, la memoria porta al 1983, quando alla kermesse musicale più importante del Bel Paese (indovinate quale?) ma da molti, compreso il sottoscritto, odiatissima, presero parte un musicista che incominciava a diventare famoso ed un gruppo che già lo era. All’edizione di Sanremo 1983 prese infatti parte Vasco Rossi con “Vita Spericolata” (arrivata penultima) e i Matia Bazar con “Vacanze Romane” giunti quarti, prima di quella che penso sia stata la canzone che passerà alla storia di quell’edizione “L’Italiano” di Toto Cutugno (per la cronaca, Sanremo lo vinse “Sarà quel che sarà”, di Tiziana Rivale, pezzo caduto, come molti brani vincitori di Sanremo, velocemente nel dimenticatoio).
Ebbene, le cronache dell’epoca furono praticamente monopolizzate dall’abbandono del palco da parte di Vasco Rossi durante la propria esibizione, a seguito delle grandi polemiche sorte dal testo della canzone, ma (e questo la dice lunga su come per ognuno di noi maturi un proprio personale gusto musicale) nella memoria di chi scrive rimane impressa la performance dei Matia Bazar e l’iconico vestito bianco indossato da Antonella Ruggero con quella spilla proprio anni Trenta/Quaranta (guardatevi il video su Youtube e ditemi se non è vero).
Fu così che anche da noi il synth pop prese piede e, per chi volesse cominciare ad esplorare il genere in versione italica, consiglio di prendere le mosse proprio dal disco dei Matia Bazar che conteneva il singolo in oggetto, Tango (seguito l’anno dopo da Aristocratica), oltre che ad altri eccellenti brani come “Palestina”, “Il video sono io”, oppure “Elettrochoc”, con la partecipazione (a modo suo) di Enzo Jannacci.
Certo siamo andati lontani dai Nation of Language, il cui suono, forse anche legato al tono un poco monocorde di Ian, ricorda moltissimo i primi singoli degli OMD (Orchestral Manoeuvres in the Dark), in particolare “Souvenir” e “Joan of Arc” (e proprio ricordando la meravigliosa copertina di quell'EP e del loro primo disco, in particolare la versione con la copertina traforata, non posso proprio fare a meno di dirvi che la copertina di Strange Disciple, per usare un eufemismo, mi pare esteticamente poco indovinata), ma questa è in breve la storia del synth-pop tra America, Inghilterra e Italia, dove anche due mondi apparentemente distanti tra loro come Matia Bazar e Nation of Language, possono trovare un comune cappello nell'esplorazione dei diversi chords di un sintetizzatore.