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REVIEWSLE RECENSIONI
Strong Man, Still Human
Lebron Johnson
2025  (Bajun, Doppio Clic Promotions)
ITALIANA BLACK/SOUL/R'N'B/FUNK
7/10
all REVIEWS
17/12/2025
Lebron Johnson
Strong Man, Still Human
Un bel disco, suonato e prodotto egregiamente, in cui la voce di Lebron Johnson trova la propria valorizzazione pressoché totale. Forse non eccellente, ma sicuramente una produzione italiana di tutto rispetto che sembra venire da oltre oceano. Rimaniamo in attesa di vederlo brillare in sede live.

L’ultimo disco di Lebron Johnson mi ha incuriosito, mi sono bastati degli sprazzi dal cellulare per capire che avrei voluto farlo mio. Sarà l’affinità generistica, il gusto sonoro e produttivo che è emerso da quei pochi secondi (e percepirlo da un sistema audio come un telefono è un pregio), fatto sta che l’ho aspettato, ascoltato e capito fino in fondo.

Un artista internazionale, origini nigeriane, ispirazioni e vocalità che spaziano da territori soul, bluesy e funk su tutti. Una produzione italiana di tutto rispetto che sembra venire da oltre oceano.

 

"Have Mercy", la prima traccia, si presenta con il cappello poggiato sul petto. Un’introduzione che tra titolo e vocalità mi porta a quella "Our Prayer" che avrebbe dovuto introdurre il capolavoro SMiLE! dei Beach Boys. Un sottofondo sporco e vecchio, di tre voci armonizzate che tengono in piedi il candore di questo momento come un treno a vapore di passaggio. E la voce di Lebron falsetta mettendoci a posto.

"Worries", invece, ci strattona e getta nell’altro angolo, quello più movimentato ma elegante; chitarra ritmica, batteria incisiva, basso tondo, organo hammond a dare carattere su colori appena più aperti. Cori femminili fondamentali per dare un’identità e un sapore sensuale al momento. Lebron porta gusto e groove nella maniera più giusta ed efficace, con delle parole che accennano alle preoccupazioni in un arco di tempo della vita, al cambiamento del loro peso dall’infanzia all’età adulta, senza appesantire ma neanche senza lasciare particolarmente il segno. Stacchi musicalmente ineccepibili che ti muovono la testa e ti obbligano a scandire il tempo e questo il funk richiede.

 

Neanche tre minuti e bum, siamo in "The Price". Una voce forzata dall’autotune ci introduce in questa bella ballad dal sapore collettivo, accompagnata da un basso che pare citare "Love is in the air". La canzone, ancora presa per mano dal calore dell’organo e dei cori, ti fa ritrovare nel mezzo del ritornello ed è un piacere, anche perché la melodia e l’armonia stavolta trasportano in una maniera che ancora non era successa.

Tocca ad una chitarra satura e fuzzy introdurre il brano successivo in una maniera talmente convincente che stavolta l’accompagnamento che ne segue, in tutta la sua troppa pulizia, stona con quanto mi sarei aspettato. Continuando ad ascoltare "Let me breathe" trovo conferma nella mia idea: il brano trova una casa più facile dell’ispirazione sonora e ritmica che tocca nei primi secondi. L’interpretazione di Lebron è invece movimentata quanto serve, propensa a sporcarsi e ad arrivare forse altrove.  Un brano che gira senza spostarmi, ma solo facendomi immaginare ciò che non c’è ma che avrebbe potuto. È un gioco che mi piace esternare quando accade, come pegno di vibrazioni che mi arrivano totalmente.

"What you don’t see" è la traccia successiva, un funk sincopato e incalzante, con degli archi nascosti che si divertono a farci vedere i Bee Gees anche quando non ci sono. E devo dire che in questo caso la canzone non prende, eccetto un facile coinvolgimento ritmico che farebbe ballare comunque. Nel senso che non si discute il mestiere, quanto la scrittura vera e propria che in questo caso non arriva. Un testo che parla di sé e della maniera spesso difficile di risultare apprezzati o amati nell’esser se stessi.

 

Tocca a un pezzo strano, il successivo "Pandemonium", farmi drizzare le orecchie, e lo fa sfruttando un mood che ancora non era arrivato. Una chitarra dai toni più gravi (immagino scordata in basso o addirittura baritona) gioca a saltare su un bordone di basso e su un ritmo che stavolta non ha il compito di farci ballare, quanto ipnotizzare. E ci riesce bene. Un ritornello che pare curiosamente strizzare gli occhi agli Incubus in maniera sostenibile.

"Way to live" abbassa il tiro, regalandoci il primo slow dell’album, in cui non potevano che emergere l’organo e le qualità di Lebron. È anche il brano in cui, parlando di suoni, mi rendo conto della grandezza del suono del basso, intendendone proprio la giusta definizione e rotondità, cosa che gestita egregiamente e col giusto equilibrio, riesce a farci respirare il vero sapore delle grandi produzioni soul internazionali. È un pregio non da poco, merito dello strumento in sé ma soprattutto del mix e del master. Il brano scorre in maniera solenne, senza a dire il vero rapirmi quanto avrebbe voluto (o dovuto) fatto sta che tutto gira bene, direi armonicamente in una maniera fin troppo scolastica.

In un attimo siamo dentro "Strong men still cry", un’ammissione di umanità che arriva dritta mentre le redini del funk e del soul tornano in mano alla band in quello che risulta essere il territorio di maggiore spessore e familiarità, e aggiungerei in uno dei migliori episodi dell’album intero. Una chitarra fuzz che sposa l’armonia dando una grinta che forse finora non era ancora arrivata con tutta questa incisività.

 

Mi prendo un attimo perché comincia "April 16th" e capisco che forse sono davanti alla canzone per cui sono di fronte alle casse e al portatile.

L’introduzione di acustica ed elettrica che si tengono per mano, lasciando spazio alla delicatezza altrui ha tutta la mia attenzione. Un piano elettrico appena percettibile fa da tappeto alle parole di Lebron. L’entrata successiva di tutti gli strumenti in realtà appesantisce eccessivamente un’atmosfera che bastava a sé, e una deformazione professionale mi fa puntare l’attenzione su quel RE del basso troppo grave per l’atmosfera, ma è solo una sensazione che mi esce dalla pelle.

Fatto sta che sono dentro la canzone, scorre, in questo senso di impossibilità e dramma, misti a voglia di trovare le parole giuste, di aprirsi e portare tutto sé stesso. Eppure c’è qualcosa che non fa sbocciare la canzone del tutto. Forse il ritornello. Le troppe parole, la risoluzione armonica. Una bella canzone, ma che mi trasmette meno di quanto avevo intravisto. Arriva in compenso l’apertura strumentale dove la voce, i cori, la chitarra e le campane giocano a darci gli anni sessanta prima di posarci a terra per il finale.

 

"Another Day" comincia portandoci in un’ispirazione giamaicana, ma pare solo un attimo introduttivo e torniamo nel soul di nostra fiducia quando parte la strofa.  Un pezzo carino, con un portamento appena indeciso nell’alternanza di sapori, ma comunque piacevole. Mi dispiace usare ancora il termine “mestiere”, ma è ciò che mi appare scritto in testa durante quasi tutto il brano. Non che sia una cosa necessariamente negativa in termini di risultato esibizionistico, live, ma di fronte a un album ho quella sensazione che mi attraversa di sottile quanto inevitabile perdita di fiducia.

"One in a million" sospende i cattivi pensieri mostrandomi nel calore dell’introduzione di piano elettrico, e nella maniera totale di dedicarcisi di Lebron, un mondo finalmente convincente senza alcun artefatto. La dinamica gira perfettamente in questa gestione a due, che pare prendersi uno spazio che per qualche motivo ancora non era emerso. La delicatezza vocale è un ingrediente che forse è un peccato assaporarsela così tardi.

 

Giunto in chiusura, mi trovo di fronte ad un bel disco, suonato e prodotto egregiamente, in cui la voce di Lebron Johnson trova la propria valorizzazione pressoché totale. Ma mi trovo anche con meno in mano di quanto mi sarei aspettato. Una scrittura armonica spesso non incisiva, che sembra non reggere del tutto  il confronto con l’aspetto ritmico, perennemente al centro e funzionante.

Mi aspettavo di brindare a un ottimo disco, ma possiamo comunque battere le mani con convinzione ad un buon prodotto, curioso di poter assaporare dal vivo queste canzoni che sicuramente troveranno un loro sfogo ancora più riuscito e meritato.