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REVIEWSLE RECENSIONI
28/07/2023
Seven Impale
Summit
I norvegesi Seven Impale tornano dopo sette anni con un disco di progressive sperimentale, complesso e straniante, folle e e ipnotico, tanto bello da lambire il confine del capolavoro.

A fine anno, quanti sono i dischi che ci portiamo in dote per il futuro? Che ci hanno colpiti così tanto da diventare, poi, parte indispensabile della nostra personale discografia? Quattro o cinque, al massimo, direi, forse dieci, a essere veramente buoni. Di sicuro, qualora aveste il coraggio di imbarcarvi in questa esperienza d’ascolto, nel lotto ci finirebbe Summit, nuovo album dei norvegesi, originari di Bergen, Seven Impale, sestetto in attività da dieci anni, che torna sulle scene dopo l’acclamato (dalla critica) Contrapasso del 2016.

Come approcciarsi a questo disco? Con tanta pazienza e, soprattutto, tanta apertura mentale. Perché Summit, la cui scaletta è composta solo di quattro lunghissime canzoni (?), è un disco estremamente complesso, spigoloso, concettualmente astratto, privo di ogni riferimento stilistico immediato, che possa essere da guida durante questo impervio cammino della durata di circa quarantacinque minuti.

Una cosa è certa: con Summit ci troviamo davanti a un monumento di progressive rock molto contiguo al jazz, in cui, dopo svariati ascolti, si colgono echi di Van De Graaf Generator, King Crimson, Camel, Caravan, Soft Machine, Frank Zappa, stipati in un contesto in cui convivono celestiali melodie, deragliamenti noise, puntute derive strumentali ed estemporanee esplosioni metal in odor d’avanguardia.

Tuttavia, per Per Stian Økland, Erlend Vottvik Olsen, Tormond Fosso, Fredrik Mekki Widerøe, Benjamin Mekki Widerøe e Håkon Vinje ciò che davvero conta è la libertà espressiva, creare un magma sonoro in cui l’ascoltatore viene immerso in un apparente caos, senza capire esattamente cosa stia ascoltando e cosa ascolterà un minuto dopo. Ciò che potrebbe apparire cervellotico, però, è in realtà frutto di una consapevolezza straordinaria e di una perizia tecnica lontana anni luce dal depauperamento espressivo in cui vive, prevalentemente, l’odierna stagione musicale.

Dal momento in cui si apre il disco, con gli accordi di pianoforte che introducono "Hunter", è subito chiaro che si stia viaggiando sul filo affilato della follia: i riff puntuti, il timbro ieratico e salmodiante di Stian Økland, un sassofono teso e dissonante ai limiti della nevrosi e l’improvvisa accelerazione che sfiora un convulso attacco di panico, spingono l’ascoltatore in un vortice magmatico nel quale ci si può aggrappare a quei pochi riferimenti stilistici che emergono tra lo tsunami di note (VDGG e scena di Canterbury).

Con "Hydra" lo scenario diventa vorticoso e inquietante, le atmosfere si fanno fumose grazie al fluttuante sax tenore di Benjamin Mekki Widerøe. E’ il brano più lineare del lotto, con una melodia nitida e un riff di chitarra ipnotico e ripetuto allo spasmo, ma una volta che i motori si accendono, l’astronave schizza via col suo carico di esplosivo, pronta a esplodere nello spazio, nei tre roventi minuti conclusivi, che potrebbero richiamare alla mente una di quelle folli digressioni sonore tanto care agli UK.

"Ikaros" è una badilata in faccia, conduce l’ascolto in una landa desolata infestata da fantasmi, ombre che si aggirano nell’oscurità con un ghigno malefico, mentre il terrore cresce insieme alla sensazione di tragedia imminente. Si viene colpiti in pieno volto da una debordante energia e da ruggiti esplosivi, spinti al parossismo dall’intenso lavoro di batteria di Fredrik Mekki Widerøe, dalle tastiere spettrali di Håkon Vinje e dalle chitarre da incubo che si muovono in territori cari ai Voivod, mentre il sax irrequieto evoca i Van der Graaf Generetor, era "Pawn Hearts".

Chiudono i tredici minuti di "Sisyphus", un brano cupo, stralunato, assolutamente folle, in cui la voce potente di Per Stian Økland evoca la tenebra in acuminati passaggi jazz e prog, ove convivono, in perfetta sintesi, sognante melodia, deragliamenti sonici in controtempo, repentini blast beat, stasi di inaspettata dolcezza e taglienti accelerazioni.

Summit è un’opera concettualmente difficilissima, che, come dicevamo, richiede tempo per essere assimilata e una totale apertura mentale per coglierne la suggestiva bellezza. Che vive tra pancia e cervello, tra istinto e ragionamento, tra esplosioni emotive e straniante intimismo. Chi conosce i Seven Impale sa esattamente cosa aspettarsi, ma chi gravita da queste parti per la prima volta, deve operare un atto di fede e consegnarsi completamente alla potenza della musica. Ne resterà estasiato.