Difficile dire se al termine di questo tour Michael Gira manterrà effettivamente le promesse e smantellerà la corrente line up dei suoi Swans. Lo aveva annunciato in precedenza in almeno un paio di occasioni, da quel che ricordo, ma poi è successo che non l'ha mai messo in pratica: con uno come lui sarebbe sempre meglio parlare solo a cose fatte.
Sono ormai una quindicina di anni, dal monumentale The Seer, tuttora annoverato tra i masterpiece assoluti della sua sterminata discografia, che il collettivo americano porta avanti una formula fatta di album kolossal, sempre rigorosamente doppi, dal respiro cinematico e da un suono il più possibile stratificato, con session a cui prendono parte decine di musicisti diversi, oltre alla formazione stabile con cui girano dal vivo.
Un ciclo tutto sommato uniforme, che ha prodotto lavori sempre molto convincenti, anche se via via privi dell'ispirazione che caratterizzava il titolo già citato o il successivo To Be Kind.
Nell'ultimo periodo poi sono affiorate stanchezza ed una certa prevedibilità, facilmente riscontrabili nel recente Birthing, che per la prima volta, almeno dal mio punto di vista, ha provocato sessioni di ascolto dove a sprazzi è affiorata una dose discreta di noia.
Ben venga dunque un cambiamento, se non altro per rimescolare le carte in tavola e sperare in un prosieguo di carriera più dinamico e imprevedibile.
Va da sé, comunque, che sul palco gli Swans non hanno mai deluso, ragion per cui, dopo aver ammirato in azione la coppia Gira/Hahn lo scorso aprile, questa calata al gran completo della formazione newyorchese risultava imperdibile.
Ancora una volta si conferma il dato che li vuole preferire, almeno quando suonano in Italia, spazi che sembrerebbero totalmente antitetici alla loro proposta: dopo il Teatro Manzoni di Bologna nel 2016 e il Conservatorio Verdi di Milano due anni orsono, eccoli in scena allo splendido Auditorium di Largo Mahler, costruito appositamente per la musica classica e dotato di un'acustica straordinaria, che nel corso del suo abbondante ventennio di vita ha comunque ospitato diverse realtà al di fuori del suo mondo di riferimento (recentemente ci sono passati addirittura i Rhapsody of Fire, protagonisti di due serate in compagnia dell'orchestra).
Quando arrivo sul posto la prima cosa che noto è la ressa al banchetto del merchandising, mentre in cassa sono affissi due avvisi importanti: il divieto di utilizzare telefoni cellulari (ribadito dallo stesso Gira prima dell'inizio e che il pubblico ha seguito ubbidientemente, anche se ovviamente c'è stato qualche furbetto che ha pensato bene di fregarsene) e la raccomandazione di munirsi di tappi antirumore a causa del volume spaventoso a cui i nostri sono soliti esibirsi (che comunque, mi viene da dire, se qualcuno non ce li avesse avuti dietro mica sarebbe potuto andare a comprarli così su due piedi...): l'ultima volta in effetti me li ero dimenticati a casa ed è tuttora inspiegabile come non abbia perso l'udito.
In apertura, poco prima delle 21, abbiamo la gradita sorpresa di vedere in azione Jessica Moss: già membro dei Thee Silver Mt. Zion Memorial Orchestra, nonché fondatrice dei Black Ox Orkestar, la violinista canadese è parte fondamentale della grande famiglia della Constellation Records, un legame accentuato anche dalla sua relazione sentimentale con Efrim Menuck dei Godspeed You! Black Emperor. E la musica dell'ensemble Post Rock è ampiamente presente anche nella sua ultima fatica Unfolding, dove il gran lavoro di Drone è affiancato alle aperture melodiche e alle progressioni tese che sono da tempo un loro marchio di fabbrica. Dal vivo è tutto molto diverso ed incentrato sul violino, suonato in solitaria e trattato con ampie dosi di loop, riverberi ed elettronica.
Set molto breve (poco più di venti minuti) che ha mostrato sprazzi di bellezza notevole ma che ha lasciato un po' di amaro in bocca per quello che potrebbe succedere avendo maggior tempo a disposizione e venendo magari affiancata da qualche altro musicista. Recuperate comunque la sua produzione in studio, se non la conoscete, perché merita parecchio.
Gli Swans si presentano sul palco alle 21.45 e resto sinceramente basito da un orario del genere, in mezzo alla settimana, considerato che normalmente suonano sempre più di due ore e che l'Auditorium è abituato a sbaraccare tutto attorno alle 22.30. Totalmente senza senso, oppure sono solo io che sto diventando vecchio...
La formazione è quella classica degli ultimi anni: oltre a Gira (voce e chitarra acustica) ci sono Kristof Hahn (lap steel), Norman Westberg (chitarra), Christopher Pravdica (basso), Larry Mullins (mellotron e percussioni), Phil Puleo (batteria) e Dana Schechter (lap steel, tastiere, basso).
Un assetto da vera e propria “Arkestra”, che è poi bene o male il modo con cui costruiscono le loro architetture sonore.
Gli ingredienti principali sono sempre la reiterazione ossessiva dei medesimi, basilari nuclei sonori, la batteria che disegna progressioni inesorabili che possono andare a spegnersi lentamente oppure innalzare wall of sound rumorosi e disturbanti, la voce di Michael Gira, che alterna salmodie ad urla selvagge che su certe frequenze riescono a penetrare anche la barriera dei tappi.
È un caos molto più controllato e studiato rispetto alle origini, ottenuto mediante suoni “puliti” e seguendo una modalità orchestrale che sarebbe stata impensabile ai tempi di Filth. Nonostante questo, il gruppo non ha perso un briciolo del proprio carattere oltranzista ed inquietante e lo show che mettono in piedi è ancora una volta un monolite scuro da cui è meraviglioso lasciarsi travolgere o, se preferite, una cerimonia mistica officiata da un Gira in versione sciamano, a cui tutti i presenti soggiaciono rapiti già dopo poche battute.
Rispetto all'ultima volta, l'insieme mi è sembrato più efficace, grazie soprattutto ad una maggiore varietà in sede di scaletta: ad una iniziale “The End of Forgetting”, lunga composizione dalle suggestioni cinematografiche, dallo sviluppo eterogeneo e dove le chitarre hanno per lunghi momenti lavorato in maniera inedita sulla melodia, è seguita una “The Merge” dove le intenzioni sono cambiate radicalmente, violenza ritmica e suoni martellanti, con Gira che si è alzato in piedi e ha smesso di suonare, dimenandosi come posseduto e dirigendo gli altri come se questo fosse davvero un concerto di musica classica.
Nel prosieguo, “Paradise is Mine” ha riportato in auge le soluzioni un po' ripetitive degli ultimi lavori, ma in sede live tutto è risultato molto più dinamico e variegato. L'intermezzo acustico di “Little Mind”, in pratica una poesia musicata, ha permesso di tirare il fiato, prima del gran finale di “A Little God in my Hands”, un classico negli ultimi anni, e dell'inedita “Newly Sentient Being”, compendio di tutto quello che amiamo negli Swans, dalla violenza trattenuta ai crescendo graduali, passando per gli sfoghi all'insegna del rumorismo più oltranzista.
Tutto questo il pubblico lo ha vissuto quasi interamente in piedi, perché come sempre fa quando suona in questi posti, Gira ha invitato tutti ad alzarsi e ad ammassarsi sotto al palco.
Una mossa assurda, che ha costretto tanti in una posizione scomoda e innaturale per più di due ore, ma è anche vero che si tratta di un tipo di performance difficilissima da seguire seduti in poltrona.
Vedremo cosa succederà adesso, se le promesse saranno rispettate e uscirà qualcosa di completamente diverso, oppure se avremo nuovamente un disco doppio dalla durata considerevole. Resta che, comunque vada, gli Swans hanno fatto un concerto strepitoso, a mio parere superiore a quello di due anni fa, e si sono confermati per l'ennesima volta come una delle band più rilevanti di tutta la scena contemporanea.
Non per tutti ma imprescindibili.

