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SPEAKER'S CORNERA RUOTA LIBERA
16/09/2022
Live Report
Tame Impala, 07/09/2022, Ippodromo, Milano
Bel concerto, magari non memorabile, ma l’ottima forma vocale di Kevin Parker, unitamente all’energia e alla qualità della maggior parte dei brani in scaletta, ha fatto il suo. Una bella serata, ottimi visual e un pubblico partecipe e inaspettatamente giovanissimo.

L’ultima volta dei Tame Impala in Italia, vado a memoria, era stata proprio qui all’Ippodromo di Milano. Che, beninteso, è uno dei posti peggiori dove fare un concerto, oltretutto in una città dove i limiti di decibel per gli eventi all’aperto combinano già parecchi danni. C’è purtroppo da dire che le venue a disposizione non sono poi moltissime e che mancano soprattutto quelle di medie dimensioni, la via intermedia tra uno stadio ed un palazzetto, per intenderci. Logico dunque che, almeno nel periodo estivo, si debba optare per questo schifo, che fa addirittura rimpiangere il Market Sound di vecchia memoria (qualcuno se lo ricorda?).

La prima cosa che mi colpisce appena arrivato sul posto è la quantità di giovani e ragazzini in paziente attesa davanti all’ingresso, molti dei quali con striscioni e cartelli vari, la maggior parte con l’aria di chi sta lì dalla mattina presto. Non avrei mai pensato che la band di Perth, in un paese come il nostro, avrebbero attirato così tante persone di una generazione che negli ultimi anni pare ascoltare solo Rap e affini (una volta dentro, a conferma delle impressioni iniziali, ho passato tutto il concerto accanto a gente tra i sedici e i vent’anni), ma direi che è una bella notizia, anche perché stiamo parlando di un act che è in giro da un po’.

 

The Slow Rush, il loro quarto disco in studio, è uscito in piena pandemia, dopo essere stato più volte annunciato, e questo ha fatto sì che non godesse di un vero e proprio tour. Era in effetti dal 2016 che non venivano dalle nostre parti e lo stesso Kevin Parker non ha mancato di farlo notare, esternando tutta la sua felicità per il fatto di essere di nuovo in giro.

Ma andiamo con ordine. Le aperture questa sera, con Giorgio Poi e Nu Genea sono decisamente degne d’interesse e arrivo presto proprio per non perderle. Parliamo di due autentiche eccellenze della nostra scena musicale, al di fuori di ogni moda e, seppure in maniera indiretta, persino in continuità con la proposta degli headliner.

L’apertura dei cancelli ritardata di mezz’ora penalizza non poco Giorgio Poi, che dopo aver effettuato un velocissimo soundcheck, si trova ad iniziare in perfetto orario sulla tabella di marcia, mentre l’ippodromo si sta appena riempiendo. Scelta singolare, la sua, che a parte l’iniziale “I pomeriggi”, propone un set incentrato esclusivamente sulle vecchie cose, con le varie “Acqua minerale”, “Il tuo vestito bianco”, “Tubature”, “Niente di strano” a costituirne l’ossatura principale. È risultata strana soprattutto l’assenza dell’ultimo singolo “Ossesso”, che sarebbe forse stato interessante promuovere in questa occasione. La band è la solita di sempre ed è ormai straordinariamente affiatata, nella mezz’ora che hanno a disposizione danno grande prova di sé, nonostante la resa sonora non fosse delle migliori ed il pubblico, salvo qualche sparuta eccezione, non partecipasse più di tanto. Riceve comunque i suoi meritati applausi e si conferma come uno dei migliori autori della sua generazione.

I Nu Genea (nome cambiato di recente per i soliti ossequi alla wokeness dei nostri tempi) sono senza dubbio uno dei nomi del momento, soprattutto dopo la pubblicazione dell’ultimo Bar Mediterraneo. Sul palco sono in tanti e il concerto è di fatto una festa, una celebrazione del sound napoletano riletto in chiave Jazz, Funk, Fusion, Elettronic e tanto altro, con l’elemento percussivo in primo piano e linee vocali femminili decisamente coinvolgenti. Brani lunghi, reiterazione dei nuclei melodici, alternanza di interventi solisti da parte di Sax, chitarre e sintetizzatori: una miscela esplosiva che riesce a coinvolgere i presenti anche in una situazione in cui nessuno era lì per loro. Livello superiore e probabilmente uno dei pochissimi prodotti realmente esportabili che abbiamo in questo momento.

 

E veniamo al vero motivo per cui siamo qui stasera. I Tame Impala arrivano alle 21.30 spaccate, quando il cielo si sta rannuvolando in maniera preoccupante: sono previsti temporali e in lontananza il nero delle nubi non lascia presagire nulla di buono. Alla fine verremo risparmiati e lo stesso Kevin Parker non manca di esternare il suo sollievo, anche se ad un certo punto dice che: “a questo punto se anche piovesse chissenefrega, sarebbe molto più divertente bagnarsi tutti!”.

Lo show comincia sulle note di “One More Year” e “Borderline” e non lo fa certo nel migliore dei modi: The Slow Rush è un lavoro interlocutorio, con alcune buone intuizioni ma nel complesso debole, non tanto per la virata in chiave Disco (già il precedente Currents si muoveva su coordinate simili), quanto perché è proprio il songwriting a risultare inferiore rispetto a quanto ascoltato agli inizi.

Per il resto è tutto come al solito: formazione a sei, con lo stesso Parker che, nonostante in studio suoni tutti gli strumenti, dal vivo preferisce concentrarsi sulla voce, suonando solo ogni tanto la chitarra. C’è grande abbondanza di sintetizzatori e tastiere, come è tipico del sound del gruppo, ma non mancano parti in cui sono le chitarre ad ergersi protagoniste, in qualche caso con incursioni soliste un po’ anacronistiche ma di grande efficacia nel contesto.

Il suono non è dei migliori, i vari strumenti sono slegati, come se mancasse un amalgama tra le parti, ma nel complesso non è quello scempio immondo che si era verificato in occasione della data di Kendrick Lamar di fine giugno. Se non altro adesso i volumi sono accettabili; più bassi della media, certo, ma almeno non basta il vicino che si accende la sigaretta di fianco a te ad impedirti di sentire.

 

Il pubblico, dal canto suo, è mediamente attento e partecipe, almeno dove sono io. L’ippodromo non è gremito come nelle grandi occasioni e neppure il pit d’ordinanza, frutto di quella speculazione che da anni attanaglia il mondo dei concerti, è del tutto pieno. L’affluenza è comunque soddisfacente, almeno dal colpo d’occhio, e l’affetto e il calore che avvolgono il gruppo, soprattutto negli episodi più famosi, contribuisce ad arricchire l’effetto generale. Loro stessi appaiono contenti: ad un certo punto si prendono una pausa per commentare i cartelli delle prime file e, se non ho sentito male, Kevin deve aver commentato con sorpresa la presenza di un riferimento ai Freemantle Dockers, la squadra di football australiano di cui è tifosissimo.

Dal vivo gli australiani non sono mai stati considerati tra gli act più validi in circolazione. In passato ho sentito più volte commenti negativi e io stesso, nelle uniche due volte in cui mi è capitato di vederli, non ero uscito proprio entusiasta. Senza dubbio pesa la mancanza totale di presenza scenica, unitamente ad una certa confusione quando si lanciano nelle parti strumentali, a volte volutamente slegate dal brano in sé, a volte con intenzioni sonore non molto definite.

Ad ovviare a tutto questo ci pensano dei visual particolarmente indovinati, che coinvolgono anche gli schermi laterali (di fatto non sono mai state restituite immagini della band che suonava) e che sono coloratissimi e lisergici nella migliore tradizione della band. Notevole anche il light design, impiegato come se fosse parte della coreografia e non come un mero elemento per far risaltare i musicisti. Grazie a queste soluzioni, per gran parte del tempo il focus è stato sull’accompagnamento visuale alla musica, e non su chi era sul palco a suonare (di fatto i sei sono stati ben poco visibili, se non dalle prime file); una scelta a mio parere vincente, dal momento che, proprio per l’impostazione generale, i brani sono stati proposti piuttosto fedelmente, senza chissà quale spinta aggiuntiva.

 

Bel concerto, comunque. Magari non memorabile, ma l’ottima forma vocale di Kevin Parker, unitamente all’energia e alla qualità della maggior parte dei brani in scaletta, ha fatto il suo: personalmente ho apprezzato la cavalcata di “Elephant”, una di quelle più energiche e movimentate (e difatti faceva strano vedere gran parte dei presenti intenta a filmare col telefonino piuttosto che buttarsi nella danza), più i soliti vecchi classici come “Feels Like We Only Go Backwards” (obbligato singalong da parte di tutti) e “Apocalypse Dreams”, oltre ad una splendida “Runway, Houses, City, Clouds”, accolta inspiegabilmente in maniera piuttosto fredda (per dire, ha riscosso più entusiasmo la conclusiva “One More Hour”, una delle chiusure di concerto più infelici che io ricordi).

Bisogna dire comunque che non tutto The Slow Rush è da buttare: “Breathe Deeper”, col suo andamento ipnotico e pulsante, mi è piaciuta molto, e la stessa cosa posso dire di “Posthumous Forgiveness”, che avevo già apprezzato quando era uscita e che anche qui, nell’economia generale dello show, funziona piuttosto bene.

La parte del leone la fanno comunque i brani di Currents, un album che è andato molto bene a livello di vendite e che, a parer mio, costituisce il punto più alto finora della scrittura di Kevin Parker, abile a far interagire il progetto di revival psichedelico degli esordi con strutture e melodie più vicine al Disco Pop da classifica. E dunque non c’è da meravigliarsi dell’impatto notevole di “Nangs” e “The Moment” e soprattutto dell’entusiasmo sfrenato che provocano le cartucce pesanti che, come da copione vengono sparate verso la fine: “Let It Happen”, “Eventually”, “New Person, Same Old Mistakes”, The Less I Know The Better”. Tra coriandoli a pioggia, singalong e battimani, rappresentano il momento più alto della comunione tra band e pubblico e costituiscono anche indubbiamente l’highlight assoluto del concerto.

Una bella serata, non c’è che dire. Il futuro dei Tame Impala lo conosceremo un po’ meglio dopo che sarà uscito il successore di The Slow Rush. Nel frattempo è indubbio che siano una band importante ed è positivo che anche da noi siano ricevuti con così tanto affetto.