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SPEAKER'S CORNERA RUOTA LIBERA
21/09/2025
Live Report
Tamino, 20/09/2025, Alcatraz, Milano
Tamino si può dire senza esagerazioni che sia uno dei cantautori più interessanti sulla piazza: un’intensità e un’espressività vocale di altri tempi, un’estensione grazie alla quale può fare quello che vuole e una band in accompagnamento eccezionale. Siamo andati ad ascoltarlo all'Alcatraz e questo è il racconto della serata.

In un certo senso potremmo considerarlo un predestinato: Tamino (il cui nome completo è Tamino-Amir Moharam Fouad) è stato chiamato così dalla madre, antropologa e grande appassionata di musica, in onore del giovane principe de Il flauto magico di Mozart. Sempre dalla madre ha ereditato l’amore per i cantautori, da Serge Gainsbourg a Tom Waits, passando per Jeff Buckley e Ben Howard, ma è difficile non pensare che il suo grande talento non gli sia stato in qualche modo passato dal nonno, Moharam Fouad, che è stato uno dei più grandi cantanti e attori egiziani.

Cresciuto ad Anversa, all’interno di uno stimolante incrocio culturale (madre fiamminga e padre egiziano), trasferitosi ad Amsterdam per studiare musica, vive attualmente a New York e il suo trasferimento nella metropoli americana ha avuto una parte non secondaria nel plasmare temi e atmosfere dell’ultimo Every Dawn’s a Mountain, il disco uscito a marzo che probabilmente ne segnerà la definitiva consacrazione tra i cantautori più importanti della nuova generazione.

 

La data milanese è l’unica italiana di questa leg autunnale, dopo che era passato da Roma la scorsa primavera, poco prima della pubblicazione dell’album. All’Alcatraz (locale che lo ospita per la seconda volta, dopo il concerto del marzo 2023) non c’è il tutto esaurito ma l’affluenza è comunque ottima con un pubblico, è il caso di dirlo, attento, caloroso e partecipe, nonostante i soliti, fastidiosissimi telefonini.

Purtroppo arrivo tardi e non riesco a seguire il set di apertura di Sam de Nef, anche lui belga, un paio di album all’attivo e una proposta non troppo dissimile da quella dell’headliner. Sento solo due canzoni, tra cui la suggestiva “Noè”, dedicata al figlio, che canta da solo accompagnandosi alla chitarra elettrica. Esecuzioni intense ma ovviamente dovrei ritornarci sopra per esprimere un giudizio esaustivo.

 

Tamino e la sua band salgono sul palco alle 21 in punto, con “My Heroine” che emerge lentamente da un magma avvolgente fatto di violoncello, Synth e un oud (il celebre liuto di origine persiana) suonato dallo stesso cantante. Nel momento in cui la canzone riesce a districarsi da questa maglia sonora e a dispiegarsi in tutta la sua cupa bellezza, diventa evidente che assisteremo ad una performance fuori dal comune. Tamino possiede un’intensità e un’espressività vocale davvero di altri tempi, oltre che un’estensione grazie alla quale può fare decisamente quello che vuole.

I paragoni con Jeff Buckley nel corso di questi anni si sono sprecati e si tratta senz’altro di un accostamento sensato, sebbene dal punto di vista stilistico ci sia meno eclettismo e in evidenza ci siano le numerose contaminazioni tra il songwriting di scuola anglosassone e sonorità mediterranee (lo si vede soprattutto nei finali, quando si lancia in improvvisazioni vocali dense di suggestioni orientaleggianti, ma anche in un brano come “Persephone”, su cui aleggia lo spettro di Leonard Cohen, ma che nella seconda parte diventa tutt’altra cosa).

La band che lo accompagna è fantastica: Victor Defoort (chitarra), Frederik Daelemans (violoncello), Ruben Vanhoutte (batteria) e Vik Hardy (tastiere e Synth) formano un team affiatato e sono perfetti nell’infondere nuova vita a canzoni che, se già in studio funzionano perfettamente, sul palco acquistano maggiore dinamicità, grazie agli incastri ritmici (“Raven” e “Sanpaku” da questo punto di vista sono eccezionali) e ad un lavoro di fino sulle code strumentali, spesso dilatate a far emergere dettagli inediti e inattesi.

Per non parlare poi del violoncello, che dona profondità e carica di forza emotiva quei brani in cui è l’unico strumento ad accompagnarsi alla chitarra o all’oud di Tamino (splendida in questo senso è la cover di “Flyin’ Shoes di Townes Van Zandt, che ha dichiarato essere tra i suoi artisti preferiti).

 

La scaletta è incentrata sui brani di Every Dawn’s a Mountain, suonato per intero ad eccezione, purtroppo, di “Amsterdam”, che a mio parere è una delle più belle e che è stata (degnamente) sostituita, nei bis, da una meravigliosa versione in solitaria di “My Dearest Friend and Enemy”, che poco prima era stata chiesta a gran voce da un fan e che lui ha deciso di accontentare: un cambio di programma che ha senz’altro contribuito a rendere speciale questo concerto.

Tra i non molti episodi del passato proposti, spiccano la delicata “The Flame” e, ovviamente, quelli che il suo pubblico considera già alla stregua di classici, e che infatti accoglie con un boato di entusiasmo: “Indigo Nights” (uno di quelli che lo ha fatto scoprire, grazie anche alla produzione di Colin Greenwood) e “Habibi”, che chiude il concerto in uno splendido arrangiamento per chitarra e violoncello. In mezzo arriva anche un pezzo nuovo, “Sleep Talking”, elegante e immediato nella melodia, mentre tra gli highlight assoluti della serata non si può non menzionare “Babylon”, per chi scrive il suo brano migliore in assoluto, e una “Dissolve” letteralmente da brividi.

Probabilmente la sua proposta non è così immediata da poter ambire a platee enormi (e forse è anche meglio così) ma Tamino, in questo momento, risulta essere il cantautore più interessante sulla piazza. Attendiamo le mosse future ma se andrà avanti su questo livello ne vedremo decisamente delle belle.