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REVIEWSLE RECENSIONI
29/01/2020
submeet
Terminal
Difficile trovare un episodio che spicca sugli altri, in quello che è soprattutto un disco coeso, un unico monolite sonoro da ascoltare dall’inizio alla fine.

Ho fatto una riflessione banale, qualche mese fa: che volare è comodo, è ormai sempre più economico (almeno all’interno del continente europeo), ti dà un’illusione di spazio e libertà. Poi però, a conti fatti, ti rendi conto che tra il trasferimento in loco, i controlli di sicurezza, l’imbarco e le attese varie, ti parte un numero di ore che è spesso triplo o quadruplo al tempo effettivo di volo. E quindi? Ne vale la pena? Certamente sì, ma il prezzo da pagare è che si spende parecchio tempo in quello che è un “non luogo” per definizione, uno spazio neutro dove, a conti fatti, si è sottoposti ad un controllo dell’identità che, pur giusto e legittimo, ha dato il via ad una riflessione profonda su quelli che sono gli spazi di libertà di cui possiamo effettivamente godere nel contesto di una società dove la digitalizzazione di massa e l’ossessione della sicurezza sembrano essere tra i temi che più dettano legge.

Ci sono queste e altre riflessioni all’interno di “Terminal”, il primo disco dei mantovani submeet, che segue di quasi tre anni l’ep d’esordio autointitolato.

Entrare in uno dei luoghi più rumorosi ed impersonali del mondo, per tentare di ritrovare il senso di un’umanità che, proprio nel momento in cui può spostarsi e viaggiare quanto vuole, si trova incerta di fronte a quello che questo viaggio potrebbe effettivamente significare.

Zannunzio (Andrea Zanini), Andrea Guardabascio e Jacopo Rossi partono da queste suggestioni per confezionare un disco che ha influenze ben precise ma riesce comunque a brillare di luce propria. Il loro Post Punk gelido, dalle suggestioni Industrial, ammantato di quel feeling impersonale e sinistro che hanno le macchine, ci catapulta in pieno in un mondo fatto di attese, di partenze e di arrivi, ma dove in definitiva non sembra ci sia nulla di confortante.

È un disco in bianco e nero, ripiegato su sé stesso e privo di qualunque sprazzo di luce. A partire dall’intro, dominato dal caos e dal rumore di fondo dell’aeroporto, che sfociano nel marziale mid tempo della title track, è tutto un susseguirsi di voci filtrate, ritmiche serrate ed elettronica che avvolge tutto come un manto pesante. Un po’ come accadeva nei dischi della prima incarnazione dei Preoccupations, quando ancora si chiamavano Viet Cong; e non a caso la band canadese è evocata anche nelle note stampa, che esplicitano come Matt Flegel e compagni conoscano e apprezzino la musica dei mantovani.

Difficile trovare un episodio che spicca sugli altri, in quello che è soprattutto un disco coeso, un unico monolite sonoro da ascoltare dall’inizio alla fine. Si può nominare la parte centrale, con gli assalti sonori di “Nimby”, “White Arms” e della fenomenale “Makkahtronic”, che è forse quello dove la capacità del gruppo di costruire oscure visioni distopiche viene declinata al meglio. Per non parlare poi della conclusiva “Audiodrome”, dodici minuti di distorsioni e rumorismo che offrono un ideale compendio di ciò che questi tre ragazzi sono capaci di fare e che, immaginiamo, soprattutto dal vivo troverà la sua dimensione migliore.

Si muovono su un sentiero già ampiamente tracciato, i submeet, ma non per questo non sono in grado di risultare piacevoli e di scrivere canzoni validissime, che non temono il confronto coi modelli più illustri. Sicuramente è un gruppo che potrebbe farci fare bella figura all’estero, cosa che non fa mai male… Auguriamo loro di togliersi un sacco di soddisfazioni.


TAGS: loudd | lucafranceschini | postpunk | recensione | submeet | terminal