La prima vera sorpresa dell’anno arriva dall’Inghilterra e s’intitola Terrapath, album d’esordio dei Plantoid, quartetto composto da Chloe Spence alla voce, Tom Coyne alla chitarra, Louis Bradshaw alla batteria e Bernardo Larisch al basso. Un disco che raggruma in dieci canzoni generi immediatamente riconoscibili, ma sviluppati attraverso idee che modificano le coordinate del percorso, portando la proposta a inaspettati livelli di originalità e di freschezza.
Il nucleo principale del suono di Terrapath potrebbe identificarsi in una sublime fusione fra rock progressive e jazz; tuttavia, non mancano elementi psichedelici, nervature math rock e qualche apertura verso più moderne sonorità indie. La scaletta, pertanto, alterna complessi moduli compositivi presi in prestito dal jazz, improvvise derive strumentali tanto care al prog, e numerose sequenze sognanti ed eteree, che ammantano alcuni brani di una bellezza diafana, quasi impalpabile.
Un saliscendi emotivo, attraverso il quale si passa da brani guidati da una maestria tecnica da autentici fuoriclasse, che tuttavia non è mai esibizione fine a se stessa, a canzoni fluttuanti e oniriche, poggiate sul velluto della voce magica della Spence. Un ascolto inusuale, si diceva, avvolto in una foschia lattiginosa, il cui velo viene strappato da improvvisi groove, lancinanti distorsioni e intriganti cacofonie.
Terrapath inizia dolcemente con "Is That You?", che si sviluppa su un leggero riff di chitarra jazz di Tom Coyne, prima che alcuni suoni glaciali di synth si aggiungano all’atmosfera nebbiosa e che la canzone si gonfi in un spettacolare crescendo. Il singolo "Pressure" fiorisce intorno a una chitarra vagamente mariachi, mentre "Modulator" si ammanta di epica jazz rock, in un susseguirsi di cambi tempo, su cui galleggia nel finale l’evocativa voce della Spence. Uno dei momenti più suggestivi del disco è rappresentato da "Dog's Life", che sfodera un riff assassino quasi heavy e una fantastica linea di basso di Bernardo Larisch.
C’è ancora tempo, poi, per immergersi nel folk prog minimale di "Only When I’m Thinking", nella ritmica jazz di "Wander/Wonder" e nell’autentico gioiello finale rappresentato da "Softly Speaking", una dolce ninna nanna, in cui la voce morbida della Spence e le note di un pianoforte permettono all’ascoltatore di espirare profondamente, ricongiungendolo con naturalezza al mondo reale, dopo un viaggio in un universo parallelo, fascinoso e straniante.
Tante idee e splendide canzoni, a cui si aggiunge un’altra nota di merito, visto il disco è stato suonato quasi tutto in presa diretta, senza sovra incisioni e artifici in fase di post produzione, a dimostrazione ulteriore della caratura tecnica e della consapevolezza del quartetto.
Terrapath non è un album di immediata assimilazione e cresce tantissimo solo dopo svariati ascolti. In alcuni momenti può suonare estremamente bizzarro, e in altri, invece, classicamente famigliare, è complesso nei suoi moduli espositivi e al contempo decisamente accessibile, una dicotomia, questa, che produce un ovvio straniamento. Svanito il quale, resta appiccicata alle orecchie la bella sensazione di aver ascoltato un grande disco.