Guardandola nel suo insieme, l’ormai più che ventennale carriera dei Death Cab for Cutie la si potrebbe dividere in quattro fasi. La prima è quella Indie, che include il demo You Can Play These Songs with Chords (1997) e gli album Something About Airplanes (1998), We Have the Facts and We’re Voting Yes (2000) e The Photo Album (2001), lavori in cui Ben Gibbard, un passo alla volta, protetto da una piccola casa discografica come la Barsuk Records, ha l’opportunità di crescere come autore e dare una chiara identità sonora a un progetto nato mentre era ancora il chitarrista dei Pinwheel.
Poi, nel 2003, si passa al secondo capitolo: alcune mirate apparizioni televisive (The O.C. su tutte) e l’uscita prima di Give Up dei The Postal Service e poi di Transatlanticism, permettono ai Death Cab for Cutie di raggiungere un pubblico più ampio e di firmare per una major come la Atlantic. Plans (2005) e Narrow Stairs (2008) fanno da corollario a questa parte della carriera del gruppo, dove la musica si fa più ambiziosa, scura e ombrosa, i dischi schizzano in cima alle classifiche e Gibbard diventa una specie di rockstar, perdendosi nelle spire dell’alcol e finendo sui rotocalchi per il matrimonio con l’attrice Zooey Deschanel.
Nel 2011 la band inizia la terza fase, con l’obiettivo di dare una rinfrescata al proprio sound: meno chitarre e più elettronica in Codes and Keys e una cura algida e maniacale della produzione in Kintsugi (2015), primo lavoro affidato a un collaboratore esterno (Rich Costey) e ultimo con Chris Walla alla chitarra. E ora che Walla non c’è più, sostituito in pianta stabile già durante la tournée di Kintsugi da Dave Depper (chitarra) e Zac Rae (tastiere), Ben Gibbard coglie l’occasione per inaugurare con Thank You for Today un nuovo periodo della carriera dei Death Cab for Cutie – il quarto –, nel quale, per la prima volta, si guarda alle spalle e, sfruttando i punti forti di un gruppo che ha già detto molto, prova a utilizzare un nuovo linguaggio senza però stravolgere una formula e un’identità già chiaramente definite.
In una recente intervista, Gibbard ha detto che Thank You for Today ha dei punti in comune sia con The Photo Album sia con Plans. A conti fatti, ascolto dopo ascolto, non gli si può che dare ragione, dal momento che dal primo ha preso la maturità compositiva e la rotondità Pop delle melodie, mentre dal secondo ha ereditato la perfezione formale e l’estrema attenzione per le textures, con l’obbiettivo di creare un album dal suono caldo e avvolgente, dalle melodie cristalline e dove ogni strumento è al servizio dell’arrangiamento della singola canzone. In un certo senso, si potrebbe dire che Thank You for Today è quello che a suo tempo Codes and Keys non è riuscito a essere: una coerente raccolta di pezzi dove lo studio è usato come asso nella manica, quasi come fosse un membro aggiunto della band.
Fortunatamente, però, quello che non ha funzionato nel 2011, dove l’arrangiamento e la cura dei dettagli avevano preso il sopravvento sulle canzoni soffocandone il potenziale, funziona nel 2018, sia perché la mano di Gibbard e soci si ferma appena un attimo prima sia perché la qualità media delle composizioni è molto alta. C’è “I Dreamt We Spoke Again”, con il suo piano Wurlitzer caldo e avvolgente sorretto da una ritmica quasi Trip-Hop; “Your Hurricane”, una delicata ballata dalla melodia circolare; “When We Drive”, avvolta da layer di tastiere dal sapore fine anni Ottanta; “Near/Far”, uno spensierato brano Pop dalla produzione così curata che sembra uscito da Brothers in Arms dei Dire Straits; “Autumn Love”, solare midtempo tutto chitarre acustiche a 12 corde e drum machine; “Northern Lights”, con il suo basso à la New Order e un cameo vocale di Lauren Mayberry dei Chvrches; e, soprattutto, “Gold Rush”, una ficcante critica alla gentrificazione che sta colpendo Seattle (la città natale di Gibbard), sviluppata a partire da un campionamento di “Mind Train” di Yoko Ono. Con il suo video à la “Bitter Sweet Symphony”, nel quale Gibbard si trova a osservare i passanti mesmerizzati dai loro telefonini mentre passeggiano, questo «requiem for a skyline» – non a caso scelto come primo singolo – ha un ritornello che è il perfetto riassunto del concept che sta alla base di tutto l’album: «Change, please don’t change/Stay, stay the same».
Poche e semplici parole che confermano come i Death Cab for Cutie, oggi, siano felici di essere quello che sono: una band comoda nel proprio vestito e pienamente realizzata, ma che, allo stesso tempo, è perfettamente consapevole che tutto ciò che si è lasciata alle spalle non tornerà più.