Tra i gruppi prog (metal) che hanno pubblicato grandi dischi nel 2023, possiamo aggiungere alla lista anche questa giovane band proveniente dalla Norvegia. Si chiamano AVKRVST, si dovrebbe pronunciare Avkrust, e con questo The Approbation sono al loro debutto, presentandosi sulle scene con circa cinquanta minuti di musica che farà la gioia di schiere di progster giovani e vecchi.
La band è composta da due amici d'infanzia, Martin Utby e Simon Bergseth, che, leggenda vuole, all’età di sette anni, si sono promessi vicendevolmente di dedicare la loro vita al rock. Oggi, ventidue anni dopo, il loro sogno di bambini è realizzato, con la pubblicazione di un concept album su un uomo che ha deciso di allontanarsi dalla società per vivere, solo coi suoi pensieri, in una capanna nel cuore della foresta, lontano dalla civiltà.
Così, per dare maggior realismo al loro progetto, i due hanno composto e registrato The Approbation in una casetta isolata ad Alvdal (Norvegia) durante un autunno e un inverno piovosi e freddi. A Simon (chitarre, basso e voce) e Martin (batterista e sintetizzatori) si sono successivamente aggiunti Øystein Aadland al basso/tastiere, Edvard Seim alle chitarre e Auver Gaaren alle tastiere.
Dopo una breve intro di venti secondi ("Østerdalen"), la scaletta vera e propria si apre con il primo singolo "The Pale Moon", e fin da subito s’intravedono come fonte d’ispirazione band di lungo corso come i Porcupine Tree e gli Opeth. Il brano si apre con il ringhio della chitarra e continui stacchi, per aprirsi poi in un’atmosfera lunatica avvolta da una melodia incredibilmente dolce e punteggiata da una ritmica leggermente sincopata. Si fluttua a mezz’aria in un cielo terso e illuminato di stelle, fino a quando, il brano prende un’inaspettata piega oscura, scartavetrata da un finale teso verso il metal, in cui compare lo straniante growl di Simon Bergseth.
L'intensa "Isolation" combina perfettamente riff rapidi e letali con sintetizzatori propri del rock progressive e ritmica in leggero controtempo, trovando equilibrio tra modernità e sonorità vintage, che nuovamente si sviluppano verso atmosfere sognanti e connotate da melodie spettacolari. La forza della band sta proprio in questa sintesi sublime tra improvvise accelerazioni e paesaggi sonori più morbidi e rarefatti, in cui suoni scintillanti (l’assolo di tastiera, in tal senso, lascia a bocca aperta) e arrangiamenti elegantissimi sono il fiore all’occhiello di una produzione senza sbavature.
Successivamente, con "The Great White River" basso e batteria si allineano in un battito cardiaco potente e poliritmico che mette in risalto il bel riff di chitarra. La strofa, poi, si immerge in un'atmosfera rilassata e morbidissima, grazie a una melodia griffata Porcupine Tree, che innesca nel mezzo un’improvvisa oscura impennata metal, che sfuma di nuovo nel tema principale della canzone. "Arcane Clouds" è introdotta da un tempo in levare, la melodia come sempre accarezza i padiglioni auricolari, mentre l’intreccio fra seriche chitarre e mellotron porta a fluttuare a mezz’aria, in un lungo momento di stasi che s’infrange contro il ringhio feroce di un finale scosso da convulsa elettricità.
La penultima traccia, "Anodyne", è il primo dei due brani più lunghi che chiosano la scaletta. Si apre con un synth sognante ed etereo che, improvvisamente, lascia il posto a un riff di organo B3, subito dopo raddoppiato dalla chitarra, e man mano che il suono si intensifica, la struttura si fa più complessa, i riff cattivi e pesanti. Un caos di settantiana memoria, che sfocia piano piano in una delicata sezione acustica, che rompe la tensione con l’ennesima irresistibile melodia e un finale di armonie vocali stratificate che lascia senza fiato.
La title track chiude la scaletta con tredici minuti di epica organizzata, che si apre con un arpeggio solare di una dodici corde che richiama alla mente il tocco di Steve Hackett, per poi dissolversi in un pesante riff, oscure tracce di elettronica, e voci distorte. Quindi, la band riparte ringhiando, la canzone gronda di pathos, crescono tensione e dissonanze, la batteria accelera, e le chitarre stridono, fino a una nuova stasi malinconicissima in cui un synth imita il suono del sax e la dodici corde torna protagonista in dissolvenza, trovando il modo perfetto per concludere un disco estremamente ben pensato, scritto ed eseguito.
In questo esordio c’è davvero tutto ciò che possa sedurre un amante del prog e in generale chi ama la musica di spessore: tecnica, lungo minutaggio, tempi dispari, melodie fascinose, ma anche quella forza e quella coesione che consentono a un concetto di essere sviluppato con intelligenza e consapevolezza. Un debutto impressionante per una band che ha tutte le carte in regola per entrare nell’Olimpo del progressive moderno.