Si scrive Billy Gibbons, ma si pronuncia ZZ Top, o almeno, così, si diceva un tempo. Oggi, il chitarrista texano, da qualche tempo ha abbandonato la casa madre e dopo quasi mezzo secolo dal suo esordio sulle scene, consolida la fresca carriera solista con un nuovo album, The Big Bad Blues. Il primo, intitolato Perfectamundo e pubblicato nel 2015, nelle intenzioni di Gibbons avrebbe dovuto mettere a confronto e far convivere le suggestioni derivanti da due diverse tradizioni musicali, quella cubana e quella texana in quota rock-blues.
Registrato tra la Spagna, il Texas e la California, quel disco nasceva con l'intento di stupire, di cercare strade espressive più originali rispetto a quelle di un passato ormai risaputo, e di sperimentare con quei suoni latini, che appaiono concettualmente agli antipodi rispetto al ringhio hard boogie che fu dei mitici Tres Hombres. Operazione senz'altro commendevole, sulla carta molto intrigante e, verrebbe da dire, financo coraggiosa, se non fosse che, chi in carriera ha venduto più di cinquanta milioni di dischi, può permettersi azzardi di questo tipo senza, in fin dei conti, rischiare granché. Il fatto è che Perfectamundo era un disco riuscito male, un'accozzaglia confusa e sfiatata di banal blues, latin rock, funky, elettronica (oddio, che pena gli ZZ Top degli anni '80!), ove spesso si mostravano i bicipiti per compensare un'evidente mancanza di ispirazione.
Non il miglior viatico, insomma, per mettere sul piatto dello stereo questo sophomore, che, a dispetto del suo predecessore, funziona, e anche molto bene. La ricetta è di una semplicità quasi banale: accantonati gli unitili sperimentalismi di Perfectamundo e sgrassato il suono che aveva reso molti degli ultimi lavori degli ZZ Top dei polpettoni indigeribili, il buon Billy, a due passi dal suo settantesimo compleanno, torna all’essenziale e all’originale, sfornando un disco di blues schietto e genuino.
Basta, infatti, ascoltare l’iniziale Missin’ Yo’ Kissin’, una grintosissima tirata che fa il verso a La Grange, per capire da che parte giri il fumo. Affiancato da un pugno di ottimi comprimari (Matt Sorumalla batteria, Mike Flanigin al pianoforte, Austin Hanks alla chitarra, James Harman all’armonica e Joe Hardy al basso), Gibbons scolpisce nella pietra una scaletta composta di brani originali e di cover (su tutte Standing Around Crying e Rollin’ and Tumblin’ di Muddy Waters), evitando di perdersi in fronzoli e amenità assortite (la sola, conclusiva Crackin’ Up suona come uno scarto ed è più vicina al mood di Perfectamundo), ma innestando la quarta e sfoderando chili di muscoli e litri di sudore.
Riff assassini, chitarre elettriche ruvide e sporche, e la voce di chi, oltre all’età ha sul groppone anche un bel po' di bevute, fanno di questo The Big Bad Blues un disco viscerale e solido, che corre dritto come un fuso a lucidare l’argenteria dei giorni migliori. Da ascoltare tutto d’un fiato, nella speranza che Gibbons si sia assestato su questi standard e rifugga per sempre perniciosissime, quanto inutili, sperimentazioni.