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REVIEWSLE RECENSIONI
14/05/2018
Artificial Pleasure
The Bitter End
Ecco un caso in cui siamo andati talmente agli estremi del citazionismo musicale da aver fatto il giro per tornare a un punto di partenza, un luogo e un tempo in cui “The Bitter End” riesce a suonare davvero come un disco straordinario.

La musica derivativa può anche essere divertente e di qualità e, per questo, è giusto premiarne l’intento. Negli ultimi vent’anni siamo stati testimoni di tutti i generi di tributi più o meno espliciti ai padri fondatori del rock e del pop che hanno fatto la storia come la conosciamo. In questa sorta di museo della musica di cera, passatemi il termine, abbiamo ri-visto di tutto: Joy Division come se piovesse, i The Cure, gli Smiths. Ci sono stati casi di Led Zeppelin e Police. Persino i Clash e i Ramones.

Ad alcuni abbiamo plaudito come si fa con i ragazzini quando si ricordano a memoria le poesiole al saggio di fine anno. Altri li abbiamo accompagnati all’uscita tirandoli per le orecchie perché su certe cose non si scherza. Per farla breve, finita la serie originale e la prima ristampa, tutto quello che nel 2018 richiama il timbro, il sound, il look di qualcos’altro avvenuto prima è giusto prenderlo come un’evoluzione di questo clonismo, una fase diciamo due punto zero, perché altrimenti non si spiegherebbe l’accanimento empirico. Chi con coraggio se ne fa latore, oggi, probabilmente vuole davvero dirci qualcosa di nuovo ed è corretto stare ad ascoltarlo.

Con questo spirito, che spero di aver trasmesso al meglio (ma dubito), è giusto dare un giudizio e un voto alto agli “Artificial Pleasure”, il cui merito è quello di aver messo in funzione un sofisticato estrattore artistico e di aver confezionato un originalissimo cocktail con un mix di David Bowie in tutti i suoi periodi, qualche goccia di Talking Heads, una foglia del Peter Gabriel di “So” e qualche cubetto del più freddo Gary Numan/John Foxx come ingenuo tentativo per occultare le prove. Che razza di mostruosità può risultare, direte voi, mescolando ingredienti dal sapore così definito e, per di più, per i sostenitori più puri e radicali delle differenti fazioni, persino così poco compatibili?

Ma, domande retoriche a parte, ecco un caso in cui siamo andati talmente agli estremi del citazionismo musicale da aver fatto il giro per tornare a un punto di partenza, un luogo e un tempo in cui “The Bitter End” riesce a suonare davvero come un disco straordinario. “The Bitter End” è talmente sconcertante da risultare irreprensibile. È un disco suonato da dio, vario e travolgente dal primo all’ultimo brano come raramente accade nella musica pop. Ecco, ci sono: “The Bitter End” è una compilation del meglio di una ventina di anni di musica e si distingue per l’abilità con cui i suoi autori sono riusciti a trasmettere il flavour di certi brani che, ascoltando il disco o anche guardando il video del singolo “On a Saturday Night”, chiunque potrebbe collocare al posto giusto da cui sono stati presi in prestito, senza esitazione.

Il lato B di “Low”. La chitarrina di “Fashion”. La prima nota di “Look back in anger”. Il tema di "The man who sold the world". Certe angosce da “The Next Day”. La melodia urlata di "It’s no game" e molto altro, in un’opera curata nei minimi dettagli e realizzata con reverenza nei confronti di Bowie e, difficile da credere, dignità per se stessi. Di certo il timbro della voce è inequivocabile, non si scappa, in più sul tentativo di imitare lo stile e il modo di cantare c’è ben poco da recriminare. Gli “Artificial Pleasure” hanno dato alle stampe una vera e propria festa in onore di David Bowie e il nome stesso della band, a pensarci bene, dovrebbe darci una risposta sul loro reale intento e fugare ogni nostro dubbio. Nel frattempo, “The Bitter End” è un disco che non riesco a smettere di ascoltare e, oggettivamente, non vedo che cosa ci sia di male.