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REVIEWSLE RECENSIONI
07/10/2018
Suede
The Blue Hour
Se dovessimo giudicare gli Suede con il metro della storia del rock, probabilmente dovremmo fermarci ai primi due dischi, esempi da manuale di estetica bowiana aggiornata e declinata secondo i dettami del Brit Pop che andava allora per la maggiore.

“Suede”, “Dog Man Star”, con la sua grandeur da Rock Opera, sono probabilmente gli unici due titoli che andrebbero citati in una discussione tra esperti avente come tema l’effettivo lascito di una determinata band al percorso storico-artistico di questa musica. Persino il successivo “Coming Up”, il primo dopo l’abbandono di Bernard Butler e l’ingresso del talentuoso Richard Oakes, quello che contiene autentici classici come “Trash” e “Beautiful Ones”, potrebbe essere considerato superfluo: dopotutto, cosa c’è in quel disco, che non sia già stato in qualche modo scritto in precedenza?

Ecco perché oggi, degli Suede sembrano essersi dimenticati tutti. Sono stati un grande gruppo del passato, hanno vissuto il loro (meritatissimo) momento di gloria venticinque anni fa, adesso possiamo pure voltare pagina. Che siano ancora attivi oggi, dopo una reunion tanto scontata quanto imprevedibile negli esiti, pare non interessare a nessuno. Se non ai loro fan, ovviamente. E qui bisognerebbe aprire un altro capitolo (troppo breve lo spazio per parlarne qui): la distinzione tra le band che riescono ad andare oltre la cerchia dei loro ammiratori più stretti e quelle che, invece, quella cerchia non la oltrepasseranno mai.

Ad ogni modo è uscito il loro nuovo album. Si chiama “The Blue Hour” ed è il terzo di quella seconda fase della loro carriera iniziata con “Bloodsports”, un disco bellissimo che nessuno si aspettava e che, probabilmente, in pochissimi hanno considerato davvero.

Il cantante Brett Anderson ha presentato il nuovo lavoro come l’ideale conclusione di una trilogia iniziata appunto col disco appena citato e proseguita con “Night Thoughts”, di due anni fa. Pressoché identico al predecessore per quanto riguarda la tonalità della copertina, “The Blue Hour” gioca ancora una volta la carta del concept album, dilatando i tempi e sfruttando tutti gli artifici di scrittura di una band che è sempre stata a suo agio con le atmosfere epiche e magniloquenti.

Proprio per questo, ad ogni capitolo di questo nuovo percorso, la stampa specializzata ha tirato fuori confronti più o meno sensati con “Dog Man Star”, come già detto punto di riferimento imprescindibile di questa band e non certo facilissimo da eguagliare.

Mettiamo subito le cose in chiaro, dunque. Questo nuovo lavoro è bello ma è decisamente il più debole dei tre e al capolavoro sopracitato ci si avvicina solo a brevi sprazzi, riuscendo nella maggior parte dei casi solo a guardarlo col binocolo.

È difficile capire di che cosa si parla in queste 14 tracce, che tra brani veri e propri e interludi arrivano all’ora complessiva di durata. Scorrendo i testi (sempre poco immediati, per la verità) e leggendo alcune cose che

Anderson ha detto in questi mesi, si ricava l’impressione di essere nuovamente davanti ad una vicenda a tema famigliare (in questo caso anche in parte autobiografica), con le voci fuori campo tra un brano e l’altro che riproducono a volte dialoghi tra padre e figlio, con l’immagine di un uccello morto a fare in qualche modo da filo conduttore.

Non tutto è facilmente intelligibile e, alla fin fine, la musica rimane l’unico modo per entrare in questo disco e seguirne lo svolgimento. Se “Night Thoughts”, nonostante la formula fosse quella, privilegiasse comunque l’elemento rock, con parecchi brani brevi, diretti in tipico stile Suede, quest’ultimo preferisce insistere molto di più su canzoni lente, dense di atmosfere tristi, a tratti cupe e dense di quella magniloquenza che è sì sempre stata un marchio di fabbrica del gruppo, ma che questa volta appare un pochettino esagerata, nonostante l’orchestra filarmonica di Praga, qui presente in quasi tutti i brani, svolga un lavoro eccellente.

Persino i singoli usciti nei mesi precedenti, fatta eccezione per “Life is Golden” (un brano al limite della perfezione che, per quanto mi riguarda, rivaleggia senza problemi con una “New Generation”), appaiono meno d’impatto, soprattutto “Flytipping”, che è poi l’ultima traccia in scaletta, col suo minutaggio elevato e il suo finale orchestrale e dalle partiture quasi progressive.

Non fraintendetemi. C’è tanta roba buona qua dentro, nonostante alcuni momenti di stanca non si scende mai sotto la soglia della sufficienza, è bello come i brani siano mixati insieme a raccontare questa storia in un unico flusso di coscienza, c’è la produzione spettacolare di un mostro come Alan Moulder e in alcuni momenti, come nel brano già citato, in “Wastelands”, “Beyond the Outskirts”, “Cold Hands”, “Don’t Be Afraid if Nobody Loves You”, si intravede tutto quanto abbiamo imparato ad amare della band britannica.

Solo, al terzo disco con la stessa formula, la macchina sembra essersi inceppata un po’. Si arriva alla fine senza problemi, si riparte anche più che volentieri per un altro giro, ma per quanto si possa poi ripetere l’esperienza, le cose da vedere paiono sempre tutte lì.

Troveranno senza dubbio nuove strade su cui portare avanti il proprio discorso. Noi nel frattempo li aspettiamo dal vivo. Due anni fa dimostrarono di essere ancora capaci di dar lezioni a molti, in quel campo.