
Se c’è una cosa che ci hanno insegnato l’hip hop, i suoi sottogeneri, gli stili che ne sono stati influenzati e tutti i vari derivati e le contaminazioni che si sono succedute fino alla trap (e, anzi, soprattutto la trap) è che i BPM (acronimo di Beats Per Minute, il valore con cui comunemente indichiamo la velocità di una partitura) non sono nella grancassa di chi suona ma nella testa di chi balla. Un amplissimo spettro di stili popolato da brani moderati ma solo sulla carta perché smaccatamente fisici e così saturi di veemenza e di impeto (anche erotico) tenuto al guinzaglio da indurre chi li propone a scaricare la responsabilità dell’effettiva scansione pratica del ritmo sul campo agli utenti finali.
Certe canzoni apparentemente contenute grondano di così tanta energia che ci vuole poco a fraintenderne l’intenzione ed ecco che, sul dancefloor, ci viene naturale, con i nostri movimenti, forzare un raddoppio dei battiti e un pezzo downbeat diventa house o techno senza tanti complimenti e, soprattutto, senza che nessuno abbia aumentato il pitch control nemmeno di una tacca. Oppure è sufficiente, come aggravante del raddoppio, qualche sussulto asimmetrico tra una pulsazione e quella successiva che ci si trova improvvisamente avviluppati in una fuga drum’n’bass ma il metronomo è matematica tanto quanto la musica, e il colpo di coda è solo illusorio e percepito.
Una tecnica che non è da tutti. Se prendete un brano bello spedito di una qualsiasi musica da bianchi, per esempio il rock, e dimezzate il BPM, dal pogo vi precipiterete ad abbracciarvi tutti per ballare avvinghiati una ballad a mo’ di lento. Viceversa, la storia della musica è costellata di lenti che, al raddoppio del tempo di batteria per un non richiesto climax conclusivo, prendono degli sviluppi tamarrissimi (“Paradise City” dei Guns N' Roses è il primo che mi viene in mente).
Non solo. "La potenza è nulla senza controllo" era un claim decisamente altisonante per il soggetto di una pubblicità di qualche tempo fa ma, tutto sommato, veritiero. E da oggi l’arte di saper controllare la potenza in musica per condizionarne gli esiti ha un suo sillogismo costitutivo: se “BPM is the power” (come qualcuno sostiene nella title-track del suo nuovo album) e quel qualcuno al BPM ha addirittura dedicato il concept stesso del suo nuovo album, allora tutta questa foga irregimentata in un disco doppio e pronta per essere liberata con lo scopo dichiaratamente strumentale di attivare esplosioni emotive, non può che portare quel qualcuno a toccare vette senza precedenti.
Quel qualcuno è lei. Ne ha fatta, di strada, la ragazza con il violino, l’artista che con strumenti musicali inconsueti per la musica black (ma fedele alla sua acconciatura afro, come si mostrava nella copertina dell’EP Sink) si è distinta sin dagli albori della sua carriera con un originale e piacevolissimo genere a cavallo tra l’indie e un R&B più rhythm che blues. Quella roba che piace ai cultori della musica alternativa, ma da cui sono pronti a dissociarsi alle prime timide avvisaglie di una cassa dritta.
Da lì, la talentuosa Brittney Parks, attraverso il suo progetto di vita in musica Sudan Archives, ha espanso la materia della sua creatività contaminando il suo songwriting con un’espressività più consona alla cultura della sua fanbase predominante, accentuando le componenti elettroniche, rap/trap e techno. Un’escalation stilistica sempre più raffinata e sperimentale allo stesso tempo, una crescita in parallelo a una riprogettazione estetica del suo alter ego per una totale integrazione nel mondo delle idee dello show business, verso un perfetto equilibrio tra una dance che definire intelligente è persino riduttivo a compensazione (e redenzione) di un approccio talvolta licenzioso da popstar neo-soul di sicuro successo, come richiesto dal mercato.
Non è un caso che le prime note che si fanno strada in The BPM siano quelle del quartetto d'archi dei Chicago D-Composed, evoluzione del suo totem e del suo oggetto transizionale (il violino elettrico) che, alla luce della potenza sonora raggiunta, potrebbe tranquillamente rimanere a riposo in soffitta.
Dopo la personificazione della dea Athena nel primo album e la dismissione dei panni di una reginetta del ballo di fine anno del successivo Natural Brown Prom Queen, l’artista completa nel terzo che è diventata Sudan Archives assume le sembianze di Gadget Girl, una sorta di donna sequencer techno del futuro. Dall’ispirazione della dance elettronica di alcuni luoghi simbolo degli ultimi decenni (Detroit e Chicago in primis) nasce una summa monumentale del ritmo e della sua unità di misura, qui assurta a titolo.
Ma la dance promessa da The BPM, dalla copertina e dal look di Sudan Archives, non si limita ad accontentare gli ascoltatori superficiali. D’altronde nessun dj, nel bel mezzo di un party, selezionerebbe tracce in cui uno spleen imbellettato da una produzione senza precedenti potrebbe far leva sulla vulnerabilità del popolo della notte e influenzare, in peggio, l’umore della gente in pista. Siamo qui per divertirci, mica abbiamo il tempo di riflettere.
Il problema di The BPM, semmai, è che è un disco altalenante ma solo perché alterna una base di brani normalmente belli ad altri che definire pazzeschi è dire poco. Tra queste vette compositive spiccano tracce come “Dead” e le sue diverse anime neo soul, techno, post-punk e drum’n’bass, provare per credere. Oppure il funk di “Come And Find You”, brano trascinante in cui un sample con intrecci di violino vi suonerà come la cosa più naturale del mondo. O le due facce (quella dance e quella trap) di “Yea Yea Yea”, dove i topos dei due stili sono sapientemente resi raffinati cameo artistici. O ancora il blocco ad alto tasso ritmico di “A Bug’s Life”, “The Nature Of Power” e “Touch Me”, fino all’ultra pop di “My Type” e il suo ritornello così ferocemente contagioso.
L’inserimento, a questo punto della tracklist, di un brano di rottura come “She’s Got Pain”, un'intima composizione soul con un tutt’altro che improbabile riff di giga irlandese suonato al violino e dall’arrangiamento di archi lungo tutto il resto, contribuisce a dare una svolta al disco. The BPM, da questo momento in poi, spinge al massimo la sua già elevata vocazione sperimentale e la compresenza di evoluzioni in sottogeneri differenti, ma tutti di modernissima matrice electro.
Tracce come l’intrigante “David & Goliath” e la travolgente “A Computer Love”, o il già citato “The BPM”, inno alla supremazia del ritmo nella musica, i provocatori rap di “Ms. Pac Man” e “Los Cinci”, costituiscono una irrefrenabile ascesa verso la perfezione di “Noire”, la vera colonna sonora del futuro, la dimostrazione che ricerca e innovazione musicale sono appannaggio esclusivo della musica a trazione black. Un punto di non ritorno da cui non resta che decomporsi in nutrimento per le radici jazz di tutto quanto fino a qui professato: “Heaven Knows”, la canzone conclusiva, paga il giusto tributo alla cultura senza la quale il progetto di Brittney Parks, e questo album stesso, non esisterebbero.
Con The BPM, Sudan Archives ci regala il disco della vita, almeno fino a questo punto della sua carriera, un’opera che mette in risalto un talento fuori del comune. Un album in cui ispirazione, esecuzione e produzione, fattori qui reciprocamente propedeutici alla perfezione con cui risulta confezionato il prodotto finale, non intaccano affatto la sensazione di euforia e di spensieratezza che pervade l’esperienza di ascolto, complice la totale assenza di qualunque vincolo di genere. La prova che i Beats Per Minute hanno tutto il diritto di esercitare il loro potere illuminato, quando sono supportati da un’accezione colta della musica pensata per il ballo.

