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REVIEWSLE RECENSIONI
26/08/2025
Wolf Alice
The Clearing
Con The Clearing i Wolf Alice hanno realizzato un disco Pop, che da un lato guarda al passato a livello di influenze, mantenendo un certo amore per il vintage, dall'altro abbonda di ballate e ammicca alle classifiche, di certo scalabili perchè gli ingredienti per farlo ci sono tutti.

Il nuovo album dei Wolf Alice innescherà probabilmente tutta una serie di discussioni, per la verità trite e ritrite, sul rapporto tra mainstream e indipendente, solisti e band, rock e pop: il quartetto londinese è da poco passato su major, lasciando la Dirty Hit alla scadenza del contratto ed accasandosi col gruppo RCA. Un salto senza dubbio importante, che però appare più come un ulteriore step verso una sempre maggiore esposizione mediatica, dopo che già il precedente Blue Weekend aveva raggiunto le prime posizioni delle classifiche britanniche, per non parlare della conquista di un Mercury Prize e di un Brit Award.

Ci sono poi le dichiarazioni esplicite in sede di presentazione, per cui questo sarebbe un album che tenderebbe a riportare sulla scena le band, in un’era dominata principalmente dai solisti (e qui si sta parlando dell’élite, perché nel panorama underground pare stia accadendo esattamente il contrario). E ancora, che questo sia un album essenzialmente rock, ispirato ai grandi gruppi del passato (hanno detto per esempio che se i Fleetwood Mac oggi scrivessero a North London, scriverebbero così), lasciando forse intendere che al giorno d’oggi ci sia un po’ di decadenza.

Poi guardi Ellie Roswell (voce), Joff Oddie (chitarra), Theo Ellis (basso) e Joel Amey (batteria) con look da rock star ma vestiti dalla testa ai piedi con abiti firmati e ti dici che in fondo in fondo non c’è proprio nulla di cui meravigliarsi o di cui discutere: il gruppo di My Love is Cool e Visions of a Life oggi non esiste più, è approdato ad una dimensione completamente diversa, una realtà parallela dove, per quanto continuiamo a ripeterci che non debba essere così, i contenuti musicali non sono per forza di cose il primo punto che viene preso in considerazione nel lancio di un progetto.

 

Può sembrare una premessa eccessivamente lunga ed anche un po’ polemica ma non è così: amo i Wolf Alice sin dagli esordi e li ho amati anche quando, con Blue Weekend, si erano avute diverse avvisaglie di quello che sarebbe potuto succedere. Che dire oggi? The Clearing è un lavoro che, sin dal titolo, gioca con l’idea degli spazi aperti ma anche con il bisogno di fare chiarezza, di eliminare i discorsi superflui e di ripartire dall’essenziale. Esattamente come hanno fatto loro, mettendosi a scrivere i nuovi pezzi già all’indomani dell’uscita del disco precedente, e lavorando principalmente con la chitarra acustica, in modo tale da far risaltare il più possibile le melodie.

Lo hanno composto quasi tutto a Seven Sisters, il quartiere di Londra dove vivono o comunque dove passano la maggior parte del tempo, dopodiché sono volati a Los Angeles nello studio di Greg Kurstin per le registrazioni.

The Clearing suona benissimo ma non è un disco rock neppure lontanamente. È un disco che riflette sin troppo bene la dimensione mainstream nella quale sono immersi, che non ha rinunciato alla complessità ed alla raffinatezza della scrittura, ma che si muove su territori che sono oramai totalmente Pop. Non è un male, attenzione: certi steccati li sentivo forse a 16 anni, mi hanno sempre dato fastidio quelli del “è su major quindi si è venduto!”; mai come in questi ultimi anni sono dell’idea che la musica sia solo bella o brutta, a prescindere dai contesti in cui viene prodotta.

Proprio per questo, trovo che questo sia il disco più debole dei Wolf Alice. È un buon disco, certamente, perché loro sono bravi, scrivono bene ed Ellie Roswell qui è al meglio delle proprie possibilità; è però in un certo senso sparita la scintilla, è tutto più prevedibile, più ammiccante, in certi punti si avverte come una mancanza di spontaneità, la sensazione che alcune soluzioni le abbiano decise a tavolino alla ricerca di un determinato effetto.

 

Sicuramente è un disco che, come hanno detto loro, guarda al passato a livello di influenze, e in questo senso mantiene intatto quell’amore al vintage che hanno avuto sin dagli esordi, anche se all’epoca lo declinavano su altri generi musicali (c’era molto Shoegaze e Dream Pop nelle loro prime cose): “Thorns”, che si muove tra pianoforte e orchestrazioni un po’ ridondanti, fa molto anni ’70 ed in certi passaggi sembra uscita da qualche teatro Off Broadway; “Just Two Girls” ha un andamento Funk ed è smaccatamente ottantiana, sfociando in un ritornello davvero indovinato. In mezzo, quella “Bloom Baby Bloom” che avevamo già conosciuto come singolo e che si rivela come una delle più ritmate, basata com’è su un ottimo lavoro di basso e batteria. Un pezzo non irresistibile (il ritornello è un po’ debole) ma senz’altro piacevole.

Abbondano le ballate, ed è questo forse il problema maggiore, perché la sensazione è quella che i quattro abbiano rinunciato a graffiare come un tempo, imbastendo undici canzoni dove piano, archi, tastiere e chitarre acustiche la fanno da padrone. C’è anche pochissima elettronica, come se avessero voluto davvero andare al fondo dell’assenza dei brani, che in effetti non sono neanche così troppo prodotti, hanno quel che serve loro per funzionare e niente di più. Alla fin fine, le poche cose un po’ movimentate sono “Bread Butter Tea Sugar”, dal ritmo saltellante e con una parte centrale pregevole, dove finalmente tutti e quattro danno il loro contributo come band e suonano alla grande (è una di quelle che a mio parere funzionerà meglio dal vivo) e un finale dove Ellie Roswell gioca con un’interpretazione alla Julee Cruise. E poi “White Horses”, sghemba e vagamente dissonante, un ritmo ipnotico nelle strofe ed un ritornello che muta completamente l’atmosfera, creando un singolare contrasto: è uscita come terzo singolo qualche settimana fa e si candida senza troppi problemi ad essere la migliore del lotto.

 

Tra le altre, quelle più soft e con ambizioni da classifica, spicca senza dubbio “Leaning Against the Wall”, acustica nell’ossatura ma anche particolarmente ricercata dal punto di vista melodico, nonché l’altro singolo “The Sofa”, una ballata davvero intensa, in un certo senso possibile ponte col passato, nel senso che appartiene a quella categoria di brani che scrivevano già prima, anche se qui forse affiora una più matura consapevolezza.

Per il resto, “Passenger Seat” gioca col Country, nella declinazione contemporanea che va di moda oggi nel mondo Pop (vedi Beyoncé o la recente “The Giver” di Chapelle Roan), “Safe in the World” è fin troppo enfatica, mentre “Play it Out” e “Midnight Song”, pianistiche ed intimiste, appaiono sin troppo di maniera.

Sbancherà le classifiche perché gli ingredienti li ha tutti, ma non dite che con The Clearing i Wolf Alice hanno rinverdito i fasti delle rock band: si tratta di un disco Pop dall’inizio alla fine e, per quanto mi riguarda, un passo indietro rispetto all’ottimo Blue Weekend. Per adesso va bene così ma in futuro me li aspetto più ispirati.