Dramma da camera, anche se qui la camera si trasforma in un intero (seppur angusto per molti versi) appartamento. The humans è la trasposizione su schermo dell'omonima pièce teatrale scritta dallo stesso Stephen Karam (qui sceneggiatore e regista) e che portò il drammaturgo a vincere nel 2016 il Tony Award, uno dei premi più prestigiosi per quel che riguarda il mondo del teatro.
Con la "lieta" occasione di una cena per il giorno del Ringraziamento da trascorrere in famiglia, Karam mette in scena i malesseri dell'oggi tramite le vicende dei Blake attraverso le quali sarà possibile, in maniera a volte diretta a volte metaforica, gettare uno sguardo profondo sulle paure e sulle preoccupazioni della società americana, estendibili anche oltre confine, che passano dalla situazione economica alla ricerca di una realizzazione personale, dalla paura per le malattie a quelle dettate dalle minacce esterne, dal cambiamento climatico, dall'invecchiamento o anche solo da una gestione dei rapporti familiari non sempre facili.
A volte le paure sono meramente quelle dettate dalle proprie azioni, dalle conseguenze delle stesse, paure che si trasformano in veri e propri incubi minacciando di sostanziarsi in forme concrete nella realtà quotidiana di tutti i giorni. Sei personaggi pressoché sempre in scena con un'alternarsi serrato di battute e, almeno nella versione cinematografica, un settimo incomodo, l'appartamento, a fare la parte del leone: onnisciente, onnipresente, minaccioso fino a divenire terrorizzante.
La famiglia Blake si riunisce per il giorno del ringraziamento nel nuovo (nel senso di novità non di moderno) appartamento newyorkese che Brigid (Beanie Feldstein) dividerà con il suo compagno Richard (Steven Yeun). In visita arrivano i genitori di lei, Erik (Richard Jenkins) e Deirdre (Jayne Houdyshell), sua sorella Aimee (Amy Schumer) e l'anziana nonna ormai invalida Momo (June Squibb) costretta su una sedia a rotelle che renderà difficile la gestione della serata negli angusti spazi del vetusto appartamento.
I preparativi per la cena iniziano tra discorsi cordiali e convenevoli, qualche difficoltà data dalle misure del luogo e dal fatto che i due ragazzi vi si sono appena trasferiti mancando quindi di parecchie comodità ancora di là da venire. Ma ciò che non convince papà Erik è in parte la struttura che presenta zone con caloriferi scrostati, pareti gonfie, scantinati bui, impianti vecchi e rumorosi e almeno una vicina di casa non troppo silenziosa.
In realtà l'uomo riversa sulla nuova situazione alcune delle sue paure: una figlia molto lontana (i genitori vengono da fuori città), la previsione di costi newyorkesi insostenibili, l'ubicazione in una zona molto vicina a quella del fu World Trade Center che solleva spiacevoli ricordi e il timore che questa sia soggetta ad alluvioni e altre catastrofi ancora. Erik è agitato, ultimamente non dorme bene, ha degli incubi notturni e la cosa inizierà a pesare e farsi sentire con l'avanzare della serata.
Richard e Brigid si confrontano con una situazione che forse non è quella da loro sperata, soprattutto per quel che riguarda le aspirazioni e l'aspetto lavorativo delle loro vite, il perseguimento delle loro passioni, mentre Aimee si sta relazionando con il dolore di una relazione finita e una malattia in via di peggioramento. Ma a traballare più di tutti sono i due capostipiti, quelle che dovrebbero essere le colonne portanti della famiglia e che vedono le loro fondamenta sgretolarsi sotto i loro piedi.
Stephen Karam chiude i suoi personaggi in casa e getta via la chiave. L'alloggio che ospita il nucleo familiare dei Blake si pone da subito come poco ospitale, una volta dentro l'esterno viene completamente tagliato fuori: i vetri sono oscurati e comunque le finestre affacciano su spazi angusti, i corridoi sono strettissimi soprattutto per la sedia a rotelle di Momo, i due piani collegati da una scala in metallo che diventa passaggio continuo tra i due spazi rendono scomodi i movimenti, l'unico luogo di contatto sembra essere la tavola attorno alla quale si raccoglierà la famiglia andando verso il finale.
È solo grazie alla sequenza iniziale che vediamo una sprazzo di cielo, la camera di Karam guarda dal basso verso l'alto le quattro mura del cortile dell'edificio che tratteggiano quella che sembra essere una sorta di prigione, come in seguito a tratti sembrerà l'ambito familiare, in alto lo squarcio azzurro forma delle geometrie in una bella sequenza che sembra opporsi a tutte quelle scontate panoramiche girate dai droni che ammorbano il cinema contemporaneo. Si intravede anche una croce, simbolo di un credo religioso che tornerà a più riprese nel film, sentimento dal quale, forte o meno che sia, Erik e Deirdre cercano di trarre coraggio.
Con il passare del tempo tra i vari protagonisti salgono le tensioni, qualche piccola accusa, qualche parola fuori posto, vengono fuori segreti e confessioni e tutte le paure dei Blake, soprattutto quelle di Erik, sembrano riversarsi in quei muri, nello scantinato, nelle stanze buie fino a prendere corpo.
The humans non arriva mai a essere, come detto da più parti, un horror psicologico, si ferma parecchio prima e rimane (e non è affatto poco) un'ottima rappresentazione delle dinamiche familiari più difficili e dei pesi enormi che la società esterna è in grado di gettare su quella che dovrebbe essere la comunità più protetta per l'individuo che le appartiene.
Karam mantiene l'impostazione teatrale ma gioca bene con il set, con i suoni, con le luci, donando profondità a questo kammerspiel fatto più che altro di dialoghi e sensazioni. Lo scenario è a tratti claustrofobico, non è un horror The humans ma i fantasmi ci sono tutti, sono i nostri, quelli che albergano nell'animo umano, nelle nostre paure e nelle nostre reazioni, quelli che rischiano di farci fare danni e incrinare anche i rapporti con le persone a noi più care.